a cura di Andrea Scappa
Dare voce alle donne che hanno lavorato allo stabilimento della Snia Viscosa di Rieti ha significato porre uno sguardo diverso su quella realtà lavorativa, finora raccontata da testimonianze in prevalenza maschili. Se in un altro articolo di questo numero riaffiorano le storie di Cesarina e Marisa, operaie nel reparto coni e scelta coni, e di Giselda, addetta al controllo qualità, qui si dà spazio ad altre tre lavoratrici che hanno avuto mansioni diverse all’interno dello stabilimento.
Carla Zamurri ci prende per mano e ci fa da guida oltre i cancelli della Snia. In qualità di assistente sociale dell’azienda dal 1971 al 1984, ha attraversato infinite volte quello spazio enorme con un viale lungo e largo. Vicino all’entrata dove sorgeva la portineria c’era la rastrelliera che accoglieva le biciclette dei dipendenti. Lungo il viale poi si affacciavano i vari reparti di produzione fino a quello finale dei coni ricoperti di tanti fili colorati, la sala della mensa, il refettorio con sopra la sala cinema, e i vari uffici, tra cui il suo che spesso profumava dei fiori ricevuti in segno di riconoscenza dai lavoratori. Quella di Rosalba è però, soprattutto, una cartografia dello stabilimento tracciata dai tanti volti dei dipendenti con cui è entrata in contatto per lavoro. Infatti la sua, come sottolinea lei stessa, è stata un’attività a 360 gradi, che teneva conto dei rapporti interni alla Snia tra dirigenza e personale, delle richieste e delle problematiche legate alla salute e al benessere dei lavoratori. In tal senso Carla gestiva una sfera d’azione molto ampia, a cui peraltro l’azienda prestava notevole attenzione: dalle visite domiciliari all’ospedalizzazione, dalle cure termali alle colonie estive, fino alle borse di studio e alle befane. Per quanto riguarda ad esempio i problemi delle lavoratrici legate alla turnazione Carla afferma: «Le donne effettuavano due turni al reparto coni. Ci potevano essere situazioni dal punto di vista medico e in quel caso subentrava il medico di fabbrica, che certificava effettivamente che non potevano fare determinati turni secondo le patologie dichiarate e certificate. Oppure avevano i figli e quindi chiedevano spesso l’inversione dei turni, magari per periodi». È stata accanto ai lavoratori che mandavano avanti a ciclo continuo uno dei più grandi stabilimenti industriali del territorio, e lo è stata anche quando è arrivata la stagione della cassaintegrazione che nei primi tempi non si sapeva bene neanche in che cosa consistesse. Carla che considerava la Snia come una grande famiglia, in quanto ci aveva lavorato il padre, ci aveva conosciuto quello che sarebbe diventato suo marito, si era legata inevitabilmente a gran parte dei dipendenti, ha vissuto questo ultimo periodo in azienda come una perdita delle radici forzata e irragionevole.

Spostando l’obiettivo incontriamo Rosalba Folci e Gabriella Rinaldi, e non possiamo fare a meno di essere condotti nel magma delle loro esistenze. Rosalba Folci, nella sua permanenza alla Snia dal 1972 al 1978, dall’ufficio del personale passa all’ufficio ragioneria fino a quello IBM. Vi entra a 19 anni, suo “malgrado”, come ripete nel corso dell’intervista. Il padre, dipendente da anni della Snia, si ammala a causa dell’insalubrità dell’ambiente di lavoro, e lo stabilimento fa seguire le sue dimissioni con l’assunzione della figlia, Rosalba. Rabbiosa per la malattia del padre, per gli imperativi del profitto e dello sfruttamento con cui la fabbrica fagocita i suoi figli, per quel futuro personale di sogni e ambizioni di colpo impedito, sviluppa il suo rapporto con lo stabilimento nel segno del conflitto. Rosalba mette in atto una serie di piccole azioni per disinnescare i meccanismi di quel luogo a lei ostile: si rifiuta di mettere il grembiule, risponde a tono, va a lavoro in minigonna, ma soprattutto si ribella al sistema di controllo dell’azienda, che la segue anche fuori e mal digerisce la sua militanza nei movimenti di allora, in particolare quello femminista. Rosalba, pur essendo impiegata, in mensa mangia insieme agli operai, è circondata dai loro bisogni e dalle loro preoccupazioni, se ne fa portavoce e, quando cominciano a ventilare le prime voci di chiusura dello stabilimento, lotta ancora di più per i loro diritti. Così rievoca una delle innumerevoli assemblee di fabbrica: «All’assemblea finale, con 1300 persone, ebbi il coraggio di salire sul palco. Dissi di tutto, svelai anche cose che sapevo nella mia posizione. Mi applaudirono talmente tanto che mi trascinai dietro gli operai a una manifestazione, una delle più grandi che si vide a Rieti».
Di tutt’altro sapore sono invece i ricordi di Gabriella Rinaldi, che fa il suo ingresso nello stabilimento reatino nel 1962 per restarci fino alla sua totale dismissione. La sua è una lunga carriera costellata da forza di volontà, intraprendenza e tante soddisfazioni. Inizia come operaia ai coni, lavora in seguito al laboratorio tessile di cui ne diviene responsabile, per poi essere impiegata del reparto candeggio e, in ultimo, segretaria del capofabbrica. Anche nelle parole di Gabriella si percepisce uno sconfinamento nei rapporti tra impiegati e operai, un’unione tra le diverse generazioni di dipendenti. Peraltro tanti erano i momenti ricreativi che coinvolgevano i lavoratori come le feste da ballo, ad esempio quelle di carnevale, che si svolgevano nel refettorio.
Dalle sue parole emerge anche che la Snia era solita conferire il premio delle idee, una sorta di ricompensa per il lavoratore che riusciva a risolvere eventuali criticità che potevano presentarsi. Gabriella racconta di quando ha vinto questo premio: «Noi al laboratorio tessile avevamo un umidificatore molto grande che serviva per tenere costante l’umidità dell’ambiente perché era importante ai fini delle analisi che facevamo al rayon e al fiocco. Il rumore dell’umidificatore dava fastidio alle nostre bilancine di precisione. Per cui mi venne l’idea di far mettere un tappeto di sughero sotto l’umidificatore che attutì il tremolio del macchinario. Così risolvemmo il problema e le bilancine tornarono a funzionare bene. Come riconoscimento mi diedero allora 20.000 lire con una lettera di ringraziamento per l’idea che avevo avuto». Inoltre Gabriella è stata sindacalista in fabbrica. Una delle battaglie vinte a favore delle lavoratrici di cui va più orgogliosa è l’ottenimento dell’ora di allattamento per le mamme che uscivano appunto un’ora prima per poter dare il proprio latte ai figli senza problemi.
Nell’area della Snia, in un angolo, lontano dai reparti, c’era poi una specie di giardino con piante da frutto, dove spesso i lavoratori andavano a riposarsi e a svagarsi nella pausa pranzo. Qui sorgeva un rigoglioso albero di gelso. Se pensiamo che con le foglie di gelso si alimentano i bachi da seta, quell’albero sembra quasi un simbolo di resistenza in un posto dove tra vapori, acidi e rumori si produceva fibra artificiale. Quel giardino e quel gelso, come le memorie indomite, incontaminate, appassionate di Carla, Rosalba e Gabriella, sono un avamposto metaforico da cui forse si può ripartire per disegnare con tenacia e bellezza il futuro dell’ex Snia, senza dimenticare quello che ha rappresentato nel passato per gli uomini e soprattutto le donne del nostro territorio.