La Prima Guerra Mondiale, che costò al mondo intero nove milioni di vittime tra i militari, a cui si aggiunsero circa sette milioni di vittime civili, per effetto dei nuovi mezzi d’assalto messi a punto per la Marina e l’Aeronautica militare, cambiò in maniera determinante ed irreversibile non soltanto le modalità delle operazioni belliche ma anche le modalità di percezione e di elaborazione del lutto collettivo. Al termine del conflitto, in tutta Europa furono eretti sacrari sui campi di battaglia e monumenti commemorativi nei loro pressi – come sulla Somme, a Duaumont, a Redipuglia –. In tutti i luoghi da cui i volontari, i giovani di leva, i richiamati erano partiti per un’avventura senza ritorno si volle custodirne il nome attraverso una lapide, un cenotafio, un segno tangibile del rimpianto e dell’onore tributato, memoriale per le generazioni a venire.
Ciò accadde anche in Italia, almeno fino a quando il regime fascista non ritenne di destinare le risorse economiche all’Opera Nazionale Combattenti e Reduci avendo sostanzialmente esaurito la stagione del compianto attraverso la solenne consacrazione del Milite Ignoto traslato da Redipuglia a Roma, dove fu accolto dapprima nella basilica di Santa Maria degli Angeli e successivamente traslato al Vittoriano. Sotto il profilo architettonico ed artistico, in particolare per quanto attiene agli aspetti iconografici e simbolici, la fantasia dei progettisti e degli artisti si sbriglia in un ventaglio assai ampio ed articolato di proposte ispirate di volta in volta al linguaggio figurativo classico, liberty, futurista: di particolare rilievo appaiono, a distanza di un secolo, quelle interpretazioni del tema monumentale che si rivelano capaci di rielaborare in chiave civile il modello della Pietà. Al termine della prima guerra mondiale, l’inutile strage invano deprecata da papa Benedetto XV, furono eretti innumerevoli memoriali sui campi di battaglia insanguinati dai soldati eroiche vittime del conflitto e nei loro paesi d’origine: furono dedicati mausolei al Milite Ignoto, furono realizzati cippi e monumenti per i caduti in tutti i paesi grandi e piccoli da cui migliaia e migliaia erano partiti al richiamo della Patria per non fare più ritorno. A Redipuglia, dal 1935 al 1938, fu eretto il monumentale sacrario ideato da Giovanni Greppi e Giannino Castiglioni, destinato ad accogliere la sepoltura di 39.857 soldati i cui nomi vennero incisi con l’appellativo “Presente” sui ventidue gradoni addossati alle pendici del monte Sei Busi, a cui si aggiunsero sul primo gradone le salme degli oltre 60.000 restituiti senza nome dagli scenari di guerra. Se la Francia depose la salma del Milite Ignoto alla base dell’Arco di Trionfo voluto da Napoleone all’alba del XIX secolo, realizzato da Chalgrin, Goust e Huyot al centro di place de l’Étoile da cui si dipartono gli Champs-Élisées, l’Italia monarchica in cui era prevalso il sentimento nazionalista nutrito dagli ideali del Risorgimento non mancare di consegnare al Vittoriano il feretro scelto da Maria Bergamas, una madre desolata che non aveva potuto dare onorata sepoltura al proprio figlio, il volontario irredento Antonio Bergamas disperso in combattimento. La bara prescelta nel corso di una struggente cerimonia sotto le navate della cattedrale di Aquileia attraversò l’Italia fino a Roma, trasportata su un carro ferroviario salutato lungo l’intero percorso da due ali di folla in lacrime: fu un’autentica prova collettiva di elaborazione del lutto, nel clima esasperato e difficile in cui maturavano i regimi totalitari, in Italia e nel resto d’Europa.
Ma ovunque, nelle città come nei borghi più isolati, sotto le volte delle chiese, nei recinti dei cimiteri, nel cuore delle piazze si dedicarono epigrafi e monumenti ad onorare i caduti della Grande Guerra. I monumenti assolvono sempre degnamente alla loro funzione evocativa, esaltata dai cerimoniali che vi si svolgono il 4 di novembre, nella ricorrenza dell’anniversario della Vittoria che segue nel calendario le date liturgiche della celebrazione di Ognissanti e della commemorazione dei fedeli defunti. I migliori talenti artistici del tempo, accanto ad una schiera numerosissima di anonimi decoratori di paese, si misurarono con il soggetto artistico così pregno di significato proponendo un ampio ventaglio di proposte figurative capaci di evocare i valori eterni dell’eroismo, del sacrificio, dell’onore, di esprimere i sentimenti più autentici, decantare il dolore più intenso nella prospettiva del riscatto dell’ orgoglio di una nazione che la guerra aveva duramente segnato.
Nel rispetto e in attuazione della l. n° 78 del 7 marzo 2001, MIBAC e ICCD hanno intrapreso il progetto per la catalogazione dei monumenti ai caduti della Grande Guerra, in collaborazione con Italia Nostra e con le Associazioni di ex combattenti, mentre il Museo Civico del Risorgimento di Bologna ed il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto hanno messo a punto un’interessante formula di consultazione on line dell’archivio “Monumenti Italiani della Grande Guerra” elencati in ordine alfabetico, per nazione, provincia, comune o località, completo per quanto possibile dei nomi dei progettisti e delle date di inaugurazione. Analogamente, nel resto d’Europa Ministeri, Enti pubblici, Associazioni contribuiscono a far memoria del passato promuovendo l’inventariazione dei monumenti commemorativi dei caduti della Grande Guerra. Così, ad esempio, in Francia sono i Dipartimenti a curare questo aspetto della catalogazione e della ricerca delle fonti documentarie. È il caso dell’inventariazione intrapresa con successo da Christian Davy e Christine Leduc-Gueye[1] per la Regione Pays de la Loire. Fino ad oggi, risultano schedati ben 61 monumenti – epigrafi, cippi, vetrate, dipinti e mosaici – ispirati al tema memoriale. Di particolare rilievo risulta l’associazione simbolica tra il soldato e il Crocifisso (fig. 1), ricorrente con qualche variante a Le Cellier, Montbert e nel mosaico di Clisson. La documentazione raccolta dai due ricercatori consente di verificare in quali termini e con quali modalità espressive i monumenti ai caduti conservano in Francia nella scelta delle forme, dei segni, dei simboli iconici la netta separazione tra una committenza civile, prevalentemente municipalistica, che si esprime nella centralità delle piazze o degli spazi civici di maggior rilievo, ed una committenza di matrice religiosa e privata, destinata a trovare spazio essenzialmente nelle chiese parrocchiali e nei cimiteri.
In Italia, le scelte operate dagli artisti impegnati nella partecipazione ai numerosi concorsi d’idee promossi da Enti pubblici e privati furono nutrite dalla variegata cultura del tempo, sospesa e a volte irrisolta tra l’eredità classica e la visionarietà liberty, appena informata della radicale svolta impressa dal Futurismo alle arti figurative. Nelle soluzioni più tarde, prodotte tra la fine degli anni Venti e la prima metà dei Trenta del Novecento, si affermano anche nell’iconografia del monumento ai caduti gli stilemi del funzionalismo attraverso i quali filtra utilmente la visione fascista dell’uomo e delle cose. L’immagine classica o classicheggiante della Vittoria alata concepita come elemento isolato o raffigurata mentre depone una corona sul capo del milite caduto o sul cippo che reca incisi i nomi dei caduti, la figura del soldato o il gruppo scultoreo che rappresenta i vari corpi delle Forze Armate in posizione statica oppure colto plasticamente in azione ricorre di frequente nella produzione dei monumenti pubblici e privati, nelle piazze cittadine e nelle cappelle cemiteriali, a cui si aggiungono soluzioni più marcatamente architettoniche nella realizzazione di autentici parchi delle rimembranze. Aquile, vessilli, scudi sabaudi, bandiere, corone di quercia e d’alloro, antico simbolo delle virtù ideali incarnate dai caduti celebrati nell’eroicità del loro sacrificio, costituiscono il corredo iconico che connota la più modesta delle epigrafi non meno che il più magniloquente dei memoriali dedicati ai soldati della Grande Guerra. In questo clima culturalmente in fermento, in questo momento cruciale della storia politica e sociale del Paese, sono numerosi gli artisti che prendono spunto dal modello ideale della Pietà così come viene consegnato dalla tradizione cristiana, dall’interpretazione medievale del Vesperbild alla magistrale produzione che attraversa l’intera esperienza artistica di Michelangelo Buonarroti, assumendolo come paradigma per una reinterpretazione laica, che sovrappone alla figura della madre i tratti ed i significati della Madre/Patria. Alla rielaborazione civile del tema sacro della Mater Dolorosa si associa l’immagine del soldato vivo che sostiene il morente, come nel cosiddetto monumento nuovo di Rivoltella del Garda (Brescia) in cui un soldato raccoglie il compagno ferito a morte, o a Sant’Angelo Lodigiano eseguito dallo scultore milanese Paolo Sozzi prima del 1922). Altre volte, il superstite assume il ruolo attivo di vendicatore, discostandosi dalle suggestioni della tradizione decorativa di impronta devozionale e religiosa: è il caso del monumento eretto a Firenze nel rione San Gallo, dove lo scultore Mario Moschi[2] raffigura il caduto raccolto da un commilitone nudo, in atteggiamento di vendicatore.
Gli elementi figurativi e plastici di ispirazione religiosa restano invece in primo piano nel monumento vecchio dell’ Abbazia di Novacella a Bressanone, dove è Cristo a raccogliere nelle sue braccia il soldato che si è sacrificato per amor di patria.
Le varie suggestioni, civili e religiose, coesistono infine senza arrivare a fondersi unitariamente nel maestoso monumento inaugurato il 28 ottobre 1932 a Forlì, progettista arch. Cesare Bazzani[3], scultore in bronzo il romano Benedetto Morescalchi, scultore in marmo Bernardino Boifava[4].
Un’efficace sintesi dei temi enunciati è tentata non senza successo nella città di Rieti, riassorbita dal Lazio nel riassetto amministrativo del 1923 e prossima ad assurgere al rango di capoluogo di provincia: qui la volontà civica di innalzare un monumento a memoria dei caduti si coniuga con l’esigenza di provvedere all’assetto del piazzale antistante alla stazione ferroviaria, dove è aperto il cantiere del Palazzo degli Studi su progetto dell’ingegner Angelo Guazzaroni[5], trovando espressione nella proposta del professor Giuseppe Calcagnadoro[6], fratello minore del già noto ed apprezzato Antonino[7], posta in opera dallo scultore di origini palermitane Giuseppe Inghilleri[8].
Avviato insieme con il fratello maggiore alla pratica della pittura dal padre Cesare[9], apprezzato decoratore e pittore edile, Giuseppe Calcagnadoro perfezionò la propria formazione a Roma frequentando fino all’anno accademico 1906-1907 i corsi di Ornato, Architettura e Geometria dell’Istituto di Belle Arti diretto da Luigi Rosso, con i docenti Filippo Prosperi, Luigi Bazzani, Guido Borgogelli, Domenico Bruschi, Gustavo Cagnetti, Giuseppe Cellini, Ettore Dolfi, Basilio Magni, Vincenzo Marini, Tobia Paoloni, Luca Seri.
Al rientro a Rieti, nel mese di novembre 1907 Giuseppe Calcagnadoro chiese ed ottenne dal Comune l’utilizzo dei locali a pianterreno del Liceo Vecchio per allestirvi i corsi serali della cattedra di Arte applicata all’Industria, in collaborazione con il circolo «Cultura operaia».
Apprezzato dai contemporanei per l’abilità nel disegno, la padronanza delle tecniche, la vena accademica delle sue opere tra cui si segnala per raffinatezza ed armonia la decorazione pittorica della cappella privata di San Francesco a Villa Battistini di Collebaccaro[10].
Nel 1927, quando Rieti fu elevata al rango di capoluogo di provincia nell’ambito del riassetto amministrativo voluto da Mussolini, fu incaricato della realizzazione del Gonfalone della Provincia che aveva in qualche modo anticipato proprio nei fregi bronzei del monumento ai caduti, ideato nel 1922 e posto in opera quattro anni più tardi.
La città di Rieti aveva pagato il suo tributo di sangue con la morte di 285 cittadini, di cui 10 ufficiali, 4 sottufficiali, 271 tra graduati e soldati semplici i cui nomi erano consegnati all’epigrafe collocata sotto ai portici del palazzo comunale.
La volontà di celebrarne il sacrificio trovò espressione nel maestoso cenotafio collocato di fronte al Palazzo degli Studi, nell’ampio piazzale aperto nell’ultimo quarto dell’Ottocento sacrificando un lungo tratto delle mura guelfe per dare accesso alla stazione ferroviaria.
Il monumento ai caduti della Grande Guerra sanciva l’apertura al nuovo da parte della città millenaria, che come ogni altro paese d’Italia aveva accettato il sacrificio di tanti suoi figli confidando in un domani di benessere, di libertà, di pace.
A seguire alcune fotografie, gentilmente messe a disposizione della famiglia dell’artista, ritraggono i bozzetti preparatori del monumento ai caduti, opera di Giuseppe Calcagnadoro.
Articolo a cura di Ileana Tozzi
***
[1] Autori dell’inventario Les Monuments aux morts de la Guerre 1014-1918 peints dans les églises paroissales realizzato nel 2013 per conto del Consiglio Regionale dei Paesi della Loira.
[2] Lastra a Signa 1896 – Firenze 1971
[3] Roma 1873 – 1939, Accademico d’Italia, nominato dalla Corona prima Grand’Ufficiale, poi Cavaliere di Gran Croce per i suoi meriti professionali.
[4] Ghedi 1888 – Forlì 1953.
[5] Amelia, 1875 – Roma 1967.
[6] Rieti 1883-1937.
[7] Antonino Calcagnadoro (Rieti 1876– Roma 1935) insegnante di Disegno pittorico alla Scuola preparatoria alle arti ornamentali del Comune di Roma in via San Giacomo, poi presso la Regia Accademia di Belle Arti a via Ripetta, fu autore versatile ed apprezzato da una vasta committenza pubblica e privata. Nella città natale, realizzò la decorazione pittorica della cappella del Crocifisso in Cattedrale, dell’aula consiliare del Comune (1908), del foyer del teatro (1910). Per il palazzo di viale Trastevere del Ministero dell’Educazione Nazionale, progettato da Cesare Bazzani (1873-1939) provvide alla decorazione del Salone dei Ministri (1934-1935).
[8] Giuseppe Inghilleri (1870-1935) aperto alle suggestioni del Secessionismo, come rivela il suo bronzo dal titolo Chi semina, chi raccoglie conservato presso la Galleria Nazionale di Roma, partecipò nel 1898 all’esposizione Generale Italiana di Torino. Nel 1905 eseguì gratuitamente la statua che fin dal 1864 il Consiglio Comunale di Ascoli aveva deliberato di erigere in o nore e memoria di Francesco Stabili, noto ai più come Cecco d’Ascoli, processato dall’Inquisizione ed arso sul rogo nel 1327 a Firenze. Di lui, scrive il prestigioso Allgemeines Lexikon der Bildenden Kűnstler von des Antike bis zur Gegenwart: «Bildhauer d. Gegenwart in Rom, gerbauf Sizilien, studierete in Rom, machte sich durth hűbsche Terrakotten bekammst. Bevorzugte realist» (Thieme-Becker, Kűnstler-Lexikon, Leipzig vol. XVIII p. 597).
[9] Le fonti d’archivio registrano nell’ultimo quarto del Settecento maestro Nicola Calcagnadoro, capostipite di una ben radicata genealogia di artisti.
[10] Cfr. I. Tozzi, L’artista e la sua tomba. La cappella Battistini presso la villa di Collebaccaro in Arte Cristiana n* 812 vol. XC settembre-ottobre 2002 pp. 363-367.