a cura di Francesco Aniballi
Un sacerdote abruzzese, di Preta di Amatrice1, appena scoppiata la prima guerra mondiale, decide che partire per il fronte come Capitano Cappellano militare è una missione sacra, una missione di pace. Don Giovanni Minozzi, infatti, vuole essere vicino a color che soffrono, poiché in questo modo si sarebbe compiuta un’opera di amore fraterno. Don Minozzi nasce a Preta di Amatrice, il 19 ottobre 1884. La sua infanzia trascorre sotto i Monti della Laga che sovrastano Amatrice. La stretta frequentazione con lo zio Giuseppe, sacerdote, spinge Giovanni a seguire la vocazione iscrivendosi al Seminario Vaticano a Roma. Qui frequenta da interno il liceo. Svolge il corso teologico all’Apollinare e viene ordinato presbitero nel 1908. Inizia a svolgere il suo apostolato nell’agro romano e lì comprende di voler svolgere un ministero sacerdotale tra la gente umile, tra coloro che soffrono, gli ultimi tra gli ultimi. Nel mentre si iscrive al corso di laurea in Lettere all’Università “La Sapienza” e consegue il diploma in Lettere e Filosofia.
Tuttavia l’ambiente curiale romano sta stretto al Minozzi che decide di abbandonare Roma così come scrive nel suo libro Ricordando: «[…] si riaccesero in me, a fiammate, brame ardenti di abbandono della città, d’ogni città, di Roma prima l’ammaliatrice, l’addormentatrice»2 . Pensa, dunque, di recarsi in Africa in missione ma ben presto Don Giovanni comprende che la Campagna di Libia può essere l’occasione di mettere in pratica i suoi propositi di stare vicino alla gente che soffre. Dunque nel 1911 il Cappellano Minozzi si imbarca sulla nave ospedale “Regina Margherita” affidata all’Associazione dei Cavalieri di Malta. «Prete italiano e cattolico – afferma con impeto giovanile – voglio la patria rispettata per la sua storia passata, per la sua gloria presente»3 ma non si tratta di un impeto guerrafondaio infatti: «la talare che vestiva e che non volle mai dismettere, neppure nei luoghi più impervi, dimostrava che la sua presenza sacerdotale era sacra: una missione di pace»4.
Subito dopo l’esperienza libica Don Minozzi rientra in Italia ma nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale. L’Italia, dapprima neutrale, si schiera, con il Patto di Londra del 1915, al fianco dell’Intesa con Inghilterra, Francia e Impero Russo. Anche questa volta Don Minozzi non riesce a guardare inerme ciò che avviene, non riesce a rimanere spettatore di una vicenda triste e di lutto quotidiano quale è la guerra che definisce «una maledizione ricorrente, una pazzia che coinvolge solidalmente e trascina a tragico dovere cittadini pacifici, che non la vollero eppure la devono combattere»5. Il 10 giugno 1915 il Capitano Cappellano Don Giovanni Minozzi parte per il fronte orientale italiano in servizio sul secondo treno ospedaliero allestito dal Sovrano Ordine Militare di Malta. Stazione di destinazione Calalzo, nel Cadore, in provincia di Belluno. Egli ha mansioni che si esauriscono all’interno del treno feriti, ciò nonostante comprende che c’è bisogno di altro. Vuole capire come funziona veramente la prima linea, vuole conoscere quali sono i veri bisogni dei fanti alla fronte6.
L’ATTIVITÀ IN GUERRA DI DON MINOZZI: SALE DI LETTURA, BIBLIOTECHINE, CASE DEL SOLDATO
Dunque inizia da Calalzo l’opera di Don Minozzi in guerra. Visita come un forsennato quasi tutti gli ospedali da campo, organizza corsi di istruzione per le suore e gli ufficiali. Ciò che però preoccupa di più il capitano cappellano militare Don Minozzi sono i soldati: hanno bisogno di tutto, principalmente del calore umano che da tempo essi anelano quando pensano e scrivono alla famiglia, ai cari, alle proprie donne. Hanno bisogno di una casa «pallida immagine della propria, ma composta di tetto e di mura che la differenzino dalla tana primitiva7, una casa provvista di oggetti familiari alla vita civile di libri, cinema, oggetti di cancelleria […] una casa confortata specialmente dall’afflato umano»8 . A Calalzo il Cappellano militare vede «centinaia di soldati annoiati di sé e degli altri inaspriti a un ozio che diventava man mano acido e rissoso»9 . Don Minozzi trova un ampio stanzone che prende in affitto a sue spese, lo arreda con scaffali di libri e sui tavoli pone molte riviste e giornali. Si tratta delle Sale di Lettura, antesignane delle Bibliotechine da campo, e poi delle Case del Soldato alla fronte. Ben presto i militi iniziano a frequentare questo nuovo luogo, punto di sosta dalla prima linea. Qui si avverte un senso di protezione, i soldati riescono a rilassarsi, scrivono alla famiglia, leggono, tornano di nuovo, almeno con la mente, alle abitudini domestiche. Tuttavia bisogna pensare anche a coloro che, degenti negli ospedali da campo, sono soli e malati, bisognosi di un sorriso, di una parola, di un dono. Ed allora ecco l’idea: fornire gli ospedali da campo di una cassetta di volumi scelti: nacquero così le Bibliotechine da campo che fanno capo alle Sale di lettura. Infatti, dopo il favorevole esperimento di queste ultime, risulta chiaro che anche i soldati feriti e depressi possono avere un qualche giovamento nel leggere riviste, giornali, libri. Sono luoghi tristi gli ospedaletti da campo e sembrano al Minozzi quasi un anticamera del cimitero. Per la raccolta dei testi istituisce un comitato presieduto dal poeta Giovanni Bertacchi mentre la presidenza onoraria è offerta alla Regina Margherita che accetta di buon grado. La regnante si da molto da fare nella ricerca di testi, ma ancora di più nel reperimento delle maglie di lana per i soldati che scarseggiano in prima linea e Don Minozzi ricerca anche beni di conforto.
Da parte dei Comandi militari l’iniziativa intrapresa da quel caparbio capitano cappellano militare è subito ben vista. Il generale Porro, Sottocapo di Stato Maggiore, è piacevolmente colpito dal lavoro eccellente di Padre Minozzi: vuole incontralo. A parlare del prelato al Generale è la contessina Osio la quale collabora con fervore alle attività di Don Minozzi. Porro comprende da subito la bontà delle idee del Cappellano e lo prega di «estendere l’azione a tutta la fronte»10. I Generali sono d’accordo sull’urgenza di risollevare il morale delle truppe svagandole e facendole riposare a qualunque costo; chiedono perciò a Don Minozzi di presentare un progetto completo e indicare il numero delle sale da impiantare con tutto il materiale occorrente.
Il 12 dicembre 1916 l’Intendenza Generale del Regio Esercito Italiano, con lettera n. 39009, comunicava ufficialmente la costituzione dell’Ufficio speciale delle Case del Soldato in zona di Guerra. La direzione, con sede a Treviso, viene naturalmente affidata al Cappellano Capitano Don Giovanni Minozzi direttamente dal Comando Supremo. La sua iniziativa inizia davvero a muovere i primi passi: le primigenie sale di lettura diventano Case del Soldato alla Fronte. Per questo suo incarico viene distaccato dalle unità ospedaliere dell’Ordine di Malta e trasferito al nuovo servizio. Alla base dell’idea delle Case del Soldato c’era naturalmente il fante che, dopo aver combattuto in trincea con istinto animalesco, quasi brutale, pur di salvarsi la vita, ritorna essere umano anelando la pace, la tranquillità, la giustizia. Costruite in legno e realizzate per lo scopo (oppure adattate in locali provvisori e dotate di servizi indispensabili) le Case del Soldato sono un’oasi dove si può respirare quell’aria di casa calda e amorevole. Secondo Minozzi fondamentale è la presenza di libri per la lettura, giochi per il divertimento, cancelleria per la corrispondenza, grammofoni per ascoltare musica, teatro, giochi all’aperto. Spesso sono invitati conferenzieri di spicco come Benedetto Croce, Filippo Crispolti, Padre Agostino Gemelli. La bontà del progetto viene addirittura riconosciuta dalla Croce Rossa Americana. Preposto ad ogni Casa è un Direttore scelto tra i soldati della Sanità: in linea di massima sacerdoti oppure componenti della Territoriale. Lo schema di ogni Casa prevede una sala di scrittura, definita anche “sala del silenzio” poiché i soldati, in silenzio, si concentravano durante la scrittura delle lettere ai propri cari, una sala di lettura, una biblioteca, una cappella. Fondamentale la costituzione di un “Segretariato speciale” d’ausilio per tutti i soldati, nello specifico per i soldati analfabeti. E poi un Ufficio informazioni che il Minozzi chiama “il consolatorio” poiché qui i fanti ricevono consigli sulle questioni che li angustiano. C’è anche un posto di ristoro dove si possono acquistare diversi generi alimentari. Ma la funzione più importante le Case del Soldato lo svolgono nella lotta all’analfabetismo. Molti combattenti, infatti, arrivano al fronte analfabeti o semi analfabeti e spesso dettano le loro lettere ai sacerdoti delle Case. Per loro furono create delle scuole dotate di lavagna, quaderni, penne, sillabari.
Siamo nel 1917, dopo un anno di attività le case del soldato all’attivo e funzionanti sono 242. Dice un soldato in una lettera inviata ai propri cari «adesso che ci hanno aperto la Casa del soldato trovo da leggere, scrivere, e passare un’ora buona. Ogni sera c’è teatro. Insomma sto bene … a momenti ci hanno innamorato anche della vita di guerra»11 . Le Case risultano ancora più utili dopo la sconfitta di Caporetto: i soldati sbandati, degenerati dal punto di vista morale necessitano di essere soccorsi. Nei suoi scritti Don Minozzi descrive i soldati reduci della battaglia come esseri indemoniati, non più umani, bestemmiatori e pronti ad ogni bassezza. Il numero delle case sale poi a 257 per giungere alla fine della guerra a 500. Le case più importanti sono quelle di Osteria di Granezza, Romans, Ala, Sagrado, Farra.

Nelle case del soldato Don Minozzi svolge un apostolato senza risparmiarsi ascoltando i guai dei militi e nello specifico «la descrizione delle persone lontane e soprattutto dei figli: l’argomento più dolce e il segno della nostalgia, delle ansie, delle preoccupazioni paterne»12. Don Minozzi, dunque, ha ben concretizzato la sua creatura che procede apparentemente senza intoppi. Tuttavia la disfatta di Caporetto e la sostituzione del Generale Cadorna con il Generale Diaz, muta gli assetti organizzativi delle Case del soldato. Spira un vento anticlericale che si riverbera anche in zona di guerra. Le Case del Soldato cominciano ad affrontare difficoltà enormi. Mancano mezzi, risorse economiche, si manifestano ritardi burocratici. Inoltre si ritiene che tale organizzazione deve essere gestita più da un militare che da un sacerdote. Si vuole alleggerire Don Minozzi da un lavoro gravoso: questa la spiegazione dello Stato Maggiore dell’Intendenza Generale che propone un nuovo assetto. La direzione amministrativa delle Case viene assegnata ad un ufficiale superiore dei Carabinieri mentre le altre mansioni sono mantenute dal Cappellano. Dal Comando Supremo furono addirittura avanzati dubbi sulla regolarità di gestione delle Case da parte del Capitano Minozzi. Egli è molto turbato ma la vicinanza dei suoi più stretti collaboratori come Don Sacchini, Don Galdoni e Don Tisi lenisce momentaneamente il suo dolore. A dissuaderlo dalle dimissioni intervengono addirittura il Vescovo Angelo Bartolomasi, Vescovo Castrense13 e il Direttore della Croce Rossa Americana. Tuttavia dall’Intendenza Generale giunge un invito per tornare nuovamente ad occuparsi delle Case poiché, dopo il suo allontanamento, stanno rimanendo prive di tutto. Don Minozzi, mettendo da parte dispiaceri ed un certo malcontento torna ad occuparsi delle Case. Il Regio Esercito nel mentre riesce a sfondare la linea del Piave mettendo fine, per l’Italia, alle operazioni belliche della prima guerra mondiale.
È il 4 novembre 1918, il lavoro del Cappellano poteva ritenersi concluso ma non è così. Adesso ad aver bisogno della sua azione sono i figli dei caduti in guerra, orfani di genitori andati a combattere soltanto per eseguire un ordine ma non convinti nell’animo. Padre Minozzi deve tenere fede ad una promessa fatta sui campi di battaglia ai genitori combattenti: prendersi cura dei propri figli. Questa volta si tratta di un’opera ancora più difficile e complessa ma che non spaventa il testardo Don Minozzi. Anche perché questa volta non è da solo a realizzare un progetto ambizioso e di alta utilità sociale. Al suo fianco c’è Padre Giovanni Semeria.
L’OPERA NAZIONALE PER IL MEZZOGIORNO D’ITALIA
Nel 1916 al Comando Supremo di Udine un frate barnabita, già conosciuto dal Cappellano per la sua fama di letterato e mente eccelsa della cultura, convoca Minozzi. Si tratta di Padre Giovanni Semeria cappellano tenente. I due si incontrano in un grande stanzone. Padre Semeria fa capolino da uno scrittoio dove «s’ammonticchiavano cumuli di libri, di giornali, di riviste, di lettere aperte e chiuse, scritte o da scrivere, cominciate e accantonate firmate e gettate da parte per imbustarle e rileggerle […]»14 . Il barnabita riceve Don Minozzi con grande felicità e trasporto. Da quell’incontro nasce una grande amicizia, foriera di una fattiva collaborazione. Infatti essi cooperano non soltanto in zona di guerra ma divengono inseparabili specialmente a fine conflitto quando la questione degli orfani diviene di importanza primaria. Lo sa bene Semeria poiché perde il padre fin da bambino e, dunque, comprende cosa vuol dire essere orfani specialmente nel sud della Penisola che tanti soldati aveva fornito all’assurda carneficina del primo conflitto mondiale. Dunque con l’Armistizio di Villa Giusti del 1918 si placano i cannoni al confine italo austriaco. Le truppe vittoriose e festanti smobilitano e con loro anche i due cappellani che attraversano assieme il Piave. Tuttavia la vittoria ha un risvolto amaro. Infatti il pensiero fisso dei due amici resta sempre uno: chi si occuperà dei bimbi rimasti orfani di guerra? Mentre sono in auto diretti a Belluno Don Minozzi e Padre Semeria riflettono nuovamente sulle parole dei padri che morenti gli raccomandano i figli. Ma cosa fare? L’idea viene a Don Minozzi: costruire collegi per gli orfani di guerra specialmente nella zona centro meridionale d’Italia: ancora soggiogata dall’annosa “questione meridionale”. Già dal 1918 i due si mettono a lavoro. Padre Semeria, o Padre Semprevia come viene chiamato a causa dei suoi continui viaggi, viaggia in tutto il sud dell’Italia mentre Minozzi torna nei suoi luoghi natii dove già pensava di erigere degli orfanotrofi. I primi aiuti provengono da amicizie che Don Minozzi ha stretto in guerra, nello specifico, sostanziose donazioni sono elargite dal gruppo Miller e da Nelson Gay, studioso di storia del risorgimento italiano. I primi stabili che i due reperiscono sono di fortuna ma questo non limita la voglia dei due di migliorare le condizioni di vita dei giovani orfani. La prima Casa inaugurata il 15 agosto 1919 è quella femminile ad Amatrice: vecchia badia benedettina riadattata per la convivenza di dodici orfanelle. Minozzi è molto preoccupato per il destino delle giovani che reputa le creature più esposte alla rovina fisica e morale. Per i maschietti, invece, acquistata la Chiesa di San Fortunato trasformando i locali in orfanotrofio. Nel mentre l’opera di Padre Semeria nel meridione dava i suoi frutti. A Potenza vengono individuati dei locali provvisori dove sono subito ospitati i primi orfani di guerra. Altri orfanotrofi furono aperti nel 1919 a Gioia del Colle. Alla fine dell’anno le Case aperte ed attive sono in tutto quattro: due ad Amatrice, una a Potenza ed una a Gioia del Colle.Nel mentre Minozzi diviene ispettore dell’Opera Nazionale per l’Assistenza Civile e Religiosa agli orfani di guerra e fa parte della Giunta Suprema per l’assistenza agli orfani di guerra istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri. In questa veste viene incaricato dal presidente Bonomi di rivedere e aggiornare la legge sugli orfani di guerra. Le Case che vanno formandosi sono numerose e richiedono un’organizzazione che gestisca questo grande apparato. Nasce così, nel 1921, l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia ente morale per l’assistenza degli orfani di guerra in Italia meridionale ed insulare. In futuro avrebbe garantito l’assistenza morale e civile alle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia con tutte le forme di attività che le condizioni di ambiente e tempo avessero man mano suggerito15.
Cinque anni dopo, il 1 novembre 1925, viene formata la Pia Società della Famiglia dei Discepoli, composta da tutti i sacerdoti seguaci della predicazione di Don Minozzi, che nel 1930 viene eretta a Congregazione religiosa guidata all’inizio dallo stesso Padre Minozzi e poi da Don Tito Pasquali. La parte femminile, invece, fu denominata Ancelle del Signore organizzate in pia associazione il 15 agosto 1940 e successivamente costituite in congregazione religiosa il 15 agosto 1961. Prima Madre Generale della congregazione Madre Maria Valenti, una delle orfane giovinette. Venti di guerra soffiano ancora una volta con il secondo conflitto mondiale e di nuovo Padre Minozzi e l’ONPMI si trovano a dover far fronte alle migliaia di giovani orfani. Già prima della seconda guerra mondiale l’Istituto Femminile di Amatrice viene ristrutturato e reso funzionale ad accogliere le femminucce mentre per i maschietti viene costruita una nuova struttura non lontana dal centro di Amatrice. Costruiti in stile modernista gli stabili sono adibiti a dormitori, officine meccaniche, tipografiche, metalmeccaniche: insomma tutto ciò che può aiutare i giovani ragazzi ad essere immessi nel mondo del lavoro forti di una solida professionalità16. Arriviamo al 1950, Gli echi della guerra ormai lentamente vanno scomparendo. L’opera Don Minozzi, come viene chiamata, continua a svolgere il suo ruolo a pieno ritmo ma una notizia funesta sconvolge tutti coloro che hanno conosciuto ed amato il sacerdote: l’11 novembre 1959 l’apostolo delle case del soldato è tornato alla casa del padre. Si conclude così l’esperienza terrena di Padre Giovanni Minozzi, sacerdote, cappellano militare, uomo carismatico che, con caparbietà e tanto sacrificio, spende tutta la sua esistenza in favore degli ultimi, dei sofferenti e soprattutto in favore dei soldati e dei loro figli, orfani di guerra. Questi ultimi hanno visto in lui un padre, un maestro, un sacerdote: in poche parole un faro lucente nella tormenta scura.
[1] Amatrice fino al 1927 rientra nella provincia de L’Aquila dunque in Abruzzo
[2] G. Minozzi, Ricordando, Roma-Milano, Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, 1984, p.118.
[3] R. Panzone, P. Giovanni Minozzi, cit., p. 36.
[4] Ibidem.
[5] Ivi, p. 35.
[6] La dizione “alla fronte” per intendere le linee difensive era declinata al femminile prima che Gabriele D’Annunzio ribattezzasse “il fronte” con un nome maschile per via della mascolinità obbligatoria imposta dal regime fascista. Cfr. G. Mastromarino, Giovanni Semeria e Giovanni Minozzi, due grandi cappellani nella grande guerra. Pacifismo nazionalismo patriottismo neutralismo interventismo: la guerra della penna e delle parole, Bari, Suma Editore, 2015, p. 154.
[7] In merito si veda il film torneranno i prati di Ermanno Olmi, 2014. Al minuto 15:05 il Capitano rispondendo al Maggiore che lo esorta a non far poltrire i soldati del settore nord-est afferma: «Caro Maggiore, l’unica direttiva che questi uomini hanno inchiodato in testa è quella della strada di casa. Ci sono momenti che questa trincea è la tua vera casa».
[8] G. Mastromarino, Giovanni Semeria e Giovanni Minozzi, due grandi cappellani nella grande guerra, cit., p. 153.
[9] Ibidem.
[10] Ibidem.
[11] D.R.Panzone, P. Giovanni Minozzi, cit.,p .45.
[12] D.R. Panzone, P. Giovanni Minozzi, cit., p. 48.
[13] Con Vescovo Castrense si intende la carica di Vescovo di Campo, ovvero colui che si trova a capo dei Cappellani militari. Si tratta, dunque, dell’ordinario militare.
[14] R. Panzone, P. Giovanni Minozzi, cit., p. 38.
[15] Ibidem.
[16] A tal proposito si confronti P.G.Minozzi, L’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, Roma – Milano, Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, 1989.
Per lo schema di riferimento sul posizionamento delle Case del Soldato alla Fronte si ringrazia il Dott. Paolo Plini (ricercatore CNR-IIA) che ha creato anche un geodatabase dei siti sul fronte di guerra italiano raggiungibile al seguente indirizzo http://luoghigrandeguerra.iia.cnr.it/
Si ringrazia inoltre Massimo Squillaci, Archivio Famiglia DIscepoli, e Padre Cesare Faiazza, Segretario Generale ONPMI.