MAMMA VISCOSA

a cura di Roberto Lorenzetti

La Viscosa non è stata una fabbrica, o meglio non è stata solo un luogo di lavoro, ma una sorta di grande mamma della città di Rieti.

Una mamma strana che ti dava un salario, ma anche la casa, costruendotela in funzione di ciò che eri, perché le gerarchie interne dovevano mantenersi anche fuori della fabbrica. C’erano così le case dei dirigenti, deliziose villette con giardino, quelle, un po’ meno rifinite, degli impiegati e poi quelle più popolari per gli operai. Erano tute lì intorno alla fabbrica che si raggiungeva a piedi o per chi arrivava dai centri limitrofi, in biciletta che poi si appendeva ai ganci di un apposito spazio coperto rimasto tutt’ora lì a raccontare questa storia. C’era poi l’asilo, lo spaccio, le colonie, le befane per i bambini, il teatro. Era il modello della fabbrica totale che forse sarebbe piaciuta ad Adriano Olivetti. Forse, perché la Viscosa di Rieti oltre a tutto questo ti regalava anche il cancro per chi lavorava all’interno nei reparti di filatura a contatto con l’acido solforico e la soda caustica, e forse anche per chi respirava quel fumo nauseabondo che fuoriusciva da quella ciminiera che per tanto tempo è stata il simbolo di quel quartiere.

Una mamma la Viscosa, una mamma nata nel 1925 tra le relazioni della politica locale con i vertici del regime e con l’intervento dello stesso Mussolini. Una mamma con 2375 figli, tanti furono gli addetti nel primo anno di attività, che potevano diventare in pochi anni più del doppio se non ci fosse stata quella terribile crisi del 1929 che provocò il crollo di Wall Street e la fame in America raccontata dalle fotografie di Dorothea Lange e Walker Evans, ma anche il crollo del mercato per quella seta artificiale che si produceva a Rieti. Neanche il New Deal risollevò le sorti e Rieti rimase con i suoi 2375 addetti. Erano in ogni caso tanti, così tanti che non ce n’erano nella Rieti di quegli anni, ed allora arrivarono da lontano, soprattutto dal Veneto e dall’Emilia, altri figli che cambiavano casa per avere una nuova possibilità di vita. È vero, in quegli anni Rieti non conobbe la disoccupazione. Tutti potevano lavorare alla Viscosa, bastava una lettera del sindaco o del parroco che garantiva per la tua morale e il gioco era fatto. Prima di essere accompagnati al reparto, si entrava nell’ufficio del personale dove una impiegata apriva il tuo fascicolo che iniziava con la lettera con cui eri arrivato lì, e poi via via il tuo contratto, e nel corso della tua vita professionale, i ritardi, le punizioni e anche i licenziamenti quando ti comportavi male o decidevi di avere un figlio. E sì, in quel caso la Viscosa ti licenziava, ma era pur sempre una mamma e ti riassumeva quando tuo figlio era stato svezzato.

Fu una rivoluzione la Viscosa. Per la prima volta le donne andarono a lavorare ed ebbero un salario diventando più autonome ed emancipate all’interno delle loro famiglie rigorosamente patriarcali. Certo, emancipate ma con parsimonia, non come quelle che arrivarono da fuori, le venete e le emiliane, guardate con diffidenza dalle reatine. Temibili donne di facili costumi, spesso arrivate da sole, e poi andavano in fabbrica con i capelli sciolti e per giunta in bicicletta. Loro no, le donne della piana non osavano tanto. Loro erano serie e timorose. I capelli ben raccolti nel fazzoletto di cotone e arrivavano in fabbrica a piedi e a testa bassa senza dar spago a tanti giovanotti che lavoravano con loro. La biciletta poi no, quella era solo per gli uomini.

L’artefice di tutto questo fu colui a cui la città ha pensato di intestare lo stadio del Rugby e un viale vicino alla fabbrica, Alberto Fassini. Lui con il Rugby non c’entra nulla ma con la Viscosa sì. Arrivava dal Piemonte ed aveva in testa l’idea della seta artificiale. Già nel 1912 aveva fondato la Cines-Seta Artificiale, per la produzione di viscosa-rayon, con stabilimenti a Pavia e Padova. Il nuovo prodotto era considerato rivoluzionario essendo in grado di sostituire in modo economico seta e cotone. Quando si iniziò a parlare di nuovi stabilimenti da impiantare nell’Italia centrale iniziò una vera e propria guerra per accaparrarsi l’ubicazione degli stessi. Ludovico Spada-Potenziani e il podestà Mario Marcuccci candidarono anche Rieti ad ospitare un opificio in tal senso e presero contatti con Alberto Fassini che doveva scegliere tra varie ipotesi che oltre al capoluogo sabino, vedeva in lizza anche Viterbo, Terni, Sulmona ed anche la lontana Venezia. Tramite la mediazione dell’on. Netti, il barone Fassini visitò Rieti e prese anche atto delle agevolazioni fiscali e logistiche che il municipio di Rieti era disposto ad offrire alla società se avesse impiantato lo stabilimento a Rieti. La pressoché concomitante visita a Rieti di Mussolini sancì il definitivo successo dell’operazione.

Fabbrica_Veduta aerea

Per l’ubicazione venne individuata una vasta area di oltre cinquanta ettari prospicente al già esistente zuccherificio, e i lavori vennero avviati nei primi mesi del 1925. L’intera cittadella industriale venne inaugurata nel 1928.

In verità la crisi del 1929 avrebbe potuto provocare anche la chiusura della Viscosa che resistette grazie alla modernità dei suoi impianti, ma negli anni successivi il personale diminuì non poco tanto che nel 1933 si era ridotto a 1158 addetti che però risalirono a 1663 nel 1935.

Nel 1943 l’azienda, in seguito alla crisi del settore e alla devastazione e requisizione degli impianti da parte dei tedeschi in ritirata, chiuse la propria attività infliggendo un duro colpo all’economia reatina di quegli anni.

La riapertura dello stabilimento divenne una priorità nell’immediato dopoguerra e a farsene carico fu il sindaco Angelo Sacchetti Sassetti, vero punto di mediazione tra la direzione dell’azienda, sindacati e Ministero dell’Industria. La Viscosa riuscì a ripartire solo nell’estate del 1946 anche con nuovi impianti che potenziarono sia la produzione del “fiocco” che del raion.

La vita della fabbrica andò avanti in modo altalenate, con notevoli oscillazioni della produzione sempre dipendente dai mercati internazionali fino alla sua chiusura negli anni Ottanta del Novecento e a nulla valsero i vari tentativi di riattivarla negli anni successivi.

Oggi restano i segni di questa storia. Grandi cubature dove si produceva la seta artificiale, le palazzine degli uffici e tanto altro ancora. Il tutto è in attesa di tornare a vivere, non di certo per essere di nuovo una fabbrica, ma qualcos’altro tutt’ora alla ricerca del “cosa”.