a cura di Andrea Scappa
Brenno Padovini e Anita Pitoni, contagiosi con il loro temperamento frizzante, ci prendono per mano e ci accompagnano nel loro passato che si impasta con la storia centenaria del teatro Flavio Vespasiano di Rieti. Il teatro Flavio Vespasiano di Rieti, una delle tante sale all’italiana che punteggiano la nostra Penisola, viene costruito nel 1893. L’architetto è il milanese Achille Sfondrini, lo stesso del teatro Costanzi, l’attuale teatro dell’Opera di Roma, di cui il Flavio ne ricalca in piccolo la struttura e lo stile. Nel foyer dimorano le cinque muse legate allo spettacolo, la Tragedia, la Commedia, il Dramma, la Danza e l’Opera lirica, realizzate da Antonino Calcagnadoro nel 1916.
Brenno, ex custode del teatro, e Anita, attrice locale, dipanano con dolcezza e allegria la matassa dei loro ricordi. Brenno, classe 1932, ricopre il ruolo di custode dal 1972, ma fin da piccolo è di casa tra quelle mura. Il padre infatti era l’elettricista del Flavio e Brenno così ricorda quegli anni: «Abitavamo a 10 metri dal teatro. A otto anni portavo la merenda a mio padre che stava rifacendo l’impianto elettrico con la CGE (Compagnia generale di elettricità) di Roma. Mi sentivo a casa. Durante gli spettacoli stavo sempre con papà in cabina luci e poi da lì, senza dire niente, ho imparato così, rubavo con gli occhi. Ho poi continuato a farlo quando sono stato assunto come custode, anche se non avrei dovuto farlo. Però lo facevo per la mia grande passione per la cabina, le spine, e le resistenze». Più o meno nello stesso periodo, all’inizio degli anni Quaranta, Anita, studentessa dell’Istituto Magistrale, esordisce nella Filodrammatica della GIL (Gioventù italiana del Littorio) con la commedia di Gherardo Gherardi Questi ragazzi diretta dal regista David Oddi. Oddi accompagna all’insegnamento della recitazione la visione critica di rappresentazioni con la produzione di recensioni. Per questo la quindicenne Anita assiste agli spettacoli delle famose compagnie di Renzo Ricci, di Emma e Irma Grammatica, mostri sacri delle scene italiane, e, obbligata dall’insegnante di Lettere, a una lezione di musica futurista di Filippo Tomaso Marinetti al pianoforte del Circolo di lettura, sala attigua al Flavio. Quella della Filodrammatica, a causa di motivi familiari, sarà per Anita un’esperienza breve, ma la voglia di calcare il palcoscenico resta sopita per riemergere prepotentemente, come vedremo, qualche anno più tardi.
Molti sono i fili che si intrecciano tra memoria personale, vita cittadina, momenti di spettacolo e retroscena. Il teatro Flavio Vespasiano reca sul suo corpo una serie di ferite che sono state rimarginate con costanza nel tempo fino agli ultimi importanti interventi di restauro. Questi hanno restituito alla città quello che viene ritenuto il migliore teatro italiano per l’acustica, titolo conferitogli da Uto Ughi dopo aver eseguito attente verifiche a riguardo. Le cicatrici provocate dalla Storia sono molte: gli ingenti danni subiti in seguito al sisma del 1898, gli incendi sventati o contenuti, la distruzione di gran parte del palcoscenico durante la seconda guerra mondiale a causa di una mina usata per costruire alle spalle del Flavio un rifugio antiaereo. Le parole di Brenno ci riportano a quell’episodio: «Volevano fare un rifugio perché quello che c’era, sotto al mercato coperto, era diventato un po’ piccolo e l’intenzione era di realizzarlo con l’ingresso dal Pincetto, situato a ridosso della parte posteriore del Flavio. Per costruirlo vennero impiegate una serie di mine e una di queste, l’ultima, andò a sfondare il palcoscenico e a colpire la cabina luci – all’epoca non c’erano i riflettori e le luci si facevano manovrando le bilance e i regolatori. E fecero, con il palcoscenico non agibile, una famosa rivista, Buffonate 1950, con i Martana e numerose soubrette. Per l’ingresso si pagava poco e la gente accorsa stava anche a cavallo della galleria. Eppure lavoravano con questo pezzetto di palcoscenico, con gli scenari che venivano giù e fecero addirittura dei camerini provvisori di carta perché quelli che c’erano erano troppo pochi per ospitare le nutrite compagini della Rivista». Dunque, sotto i bombardamenti, come avviene nel resto d’Italia, il teatro non si ferma, gli artisti continuano a recitare e a Rieti a partire dal 1946 Pier Luigi Mariani segna una svolta. Mariani decide di assumere il ruolo di direttore artistico e regista della Compagnia “Piccola Scena”, che a causa dell’inagibilità del Flavio debutta e svolge la sua attività nei primi anni di vita al Cinema Teatro Battistini, nell’attuale via Cintia angolo via Alemanni. Seduta in una di quelle poltrone Anita vede le opere messe in scena dalla filodrammatica, tra cui Il beffardo, Due dozzine di rose scarlatte, e La vena d’oro. E proprio nella riproposizione di quest’ultima commedia di Guglielmo Zorzi nell’autunno 1948 Anita debutta con “Piccola Scena” interpretando la protagonista. Durante le pause tra una prova e l’altra Mariani scopre che Anita nel conversare è solita usare espressioni in dialetto reatino per insaporire e rendere meglio la spiegazione di determinate situazioni. Invece nella compagnia le altre attrici parlano e recitano solo in italiano. Così Mariani può finalmente rappresentare L’amore ’ncagnarellu, un atto unico che teneva nel cassetto, perché ha trovato per il personaggio della giovane Giovannina l’interprete perfetta: Anita. L’amore ’ncagnarellu al Flavio nell’ottobre 1949 è un successo senza precedenti, diventa la prima di una serie di opere in vernacolo attraverso le quali Mariani porta sul palcoscenico le atmosfere, le persone, i mestieri, le abitudini della società reatina, quella del mondo popolare che finalmente accede al Flavio. Le risate e il trasporto degli spettatori, l’assidua presenza alle innumerevoli repliche, i testi pubblicati di Mariani imparati a memoria provocano un’onda travolgente. Si genera un patto di riconoscenza, un’osmosi tra scena e platea. Nel sottolineare questo passaggio epocale per il teatro a Rieti Anita racconta: «È venuto a teatro il popolo, il popolo di Porta d’Arci, il popolo del Borgo, di San Francesco. Quando arrivavamo al Flavio, almeno mezz’ora prima dello spettacolo, era già pieno di gente ed era commovente vedere queste donne tutte ben pettinate, ben vestite, insomma i reatini sono entrati nel teatro. Il teatro infatti non veniva frequentato dal popolo, solo quando c’era l’opera alcuni andavano nel loggione, ma in platea assolutamente no. Venivano a teatro, ma per vedere le signore come erano vestite e le persone che entravano. Questa volta sono venuti tutti, a migliaia, e c’era una grande attesa».
Prima di lasciarci, ci vengono incontro ancora due ricordi che uniscono il Flavio alla loro vita privata e che riguardano l’enorme lampadario e un palco di barcaccia. La platea del Flavio è sovrastata da una cupola che all’inaugurazione del teatro mostrava Il Trionfo di Tito realizzato dal pittore Giuseppe Casa mentre ora presenta la raffigurazione a tempera del Trionfo di Vespasiano e di Tito dopo la presa di Gerusalemme eseguita dall’artista Giulio Rolland poiché i precedenti dipinti erano stati rovinati dal terremoto del 1898. Al centro della cupola fiorisce un imponente lampadario. Brenno, mostrando una foto in bianco e nero in cui è ritratto con il padre all’interno del lampadario, spiega: «Per pulirlo andavamo al suo interno con una scala apposita, scioglievamo ogni fila di granate, una per una, e la calavamo giù dove una signora con un secchio la lavava. Terminata l’operazione di pulitura la facevamo salire di nuovo e la rimettevamo al suo posto. Venivano pulite anche le luci. Ci voleva molto tempo, anche una settimana». Anita invece pesca dal suo album una foto a cui tiene molto e la descrive: «Mi ricordo nella barcaccia mia madre, mio fratello con i figli piccoli, e parte della mia famiglia che assistono nel 1971 a un lavoro che abbiamo rimesso in scena dopo molto tempo e in cui ero la protagonista, L’aspu surdu, libera trasposizione in vernacolo di Vincenzo Marchioni de L’acqua cheta di Augusto Novelli. Ancora una volta un pienone».
Nelle infinite diapositive che Anita e Brenno hanno proiettato davanti ai nostri occhi riscopriamo un patrimonio spesso dimenticato, sottovalutato, ma che ci appartiene intimamente. È una ragnatela di memorie che improvvisamente invade l’intero teatro, dai sotterranei al loggione, dal palcoscenico alla platea, una trama che non lascia scampo e avvolge tutti noi.