RIETI E LA PALLACANESTRO: UN LEGAME INDISSOLUBILE

di Luigi Ricci

Rieti e la pallacanestro: un binomio che dura da decenni. Addirittura già da prima della seconda guerra mondiale. A Rieti, infatti, i primi vagiti della “pallalcesto” – divenuta poi pallacanestro e nei tempi moderni basketball, o più semplicemente basket – risalgono all’epoca di quell’esecrato ventennio che, tra le pochissime cose buone, predicò, anzi impose, a tutti gli italiani la pratica dell’attività ginnico-sportiva, anche se in realtà il mito dell’efficienza del corpo e della competizione, erano finalizzati a temprare il popolo alla guerra.

Come ricorda il giornalista Ajmone Milli nel libro Atletica a Rieti: “Gli atleti di quei tempi erano, come dire?, polidirezionali, nel senso che ciascuno faceva tutto e quanto era necessario dovessero fare ad majorem gloria Dei. C’era in ciascuno una specie di fiamma interiore che bruciava ogni dubbio, ogni scrupolo di possibilità: ognuno doveva al contempo essere molti, atleticamente parlando. Una sorta di pirandellismo dei muscoli. In tale passepartout che ciascuno rappresentava, il più tutto di tutti è stato senz’altro CréCré, all’anagrafe Mario Esposti da Porta D’Arci. Studente alle magistrali, faceva il lungo, l’alto, il triplo, il centravanti nella Supertessile (serie C nel ‘38) e giocava a pallacanestro. E se c’era da coprire qualche altra specialità non è che si tirasse indietro. Crecrè, più di chiunque altro a Rieti, è stato ciò che potremmo definire “il” campione nell’immaginario collettivo cittadino. Una sorta di Dio, nonostante fumasse come un turco, anche di notte. A 18 anni, nel ‘36, passava l’asticella a 1.45 e due anni dopo, al XIII Gran Premio dei Giovani saltò 1.75 (16° in Italia). Una specie di immortale nello scatto, caratteristica che lo ha sempre distinto quando, nel ‘38, giuocava centravanti nella Supertessile. Alto poco più di 1.70, era un gran saltatore che con un colpo di reni, un doppio scatto, stava in aria un attimo in più degli avversari. Doti che lo fecero distinguere anche nella pallacanestro, della cui squadra pre-era Sebastiani fu la stella di classe più fulgida”. Mario Esposti fu dunque una sorta di Jesse Owens reatino, e la sua carriera sarebbe proseguita, seppur in tono minore, pure dopo che la guerra ebbe azzerato qualsiasi attività sportiva, fino all’eccidio dei fratelli Angelo, Mario e Gino Sebastiani – anch’essi atleti polidirezionali come CréCré – alla memoria dei quali venne intitolata al termine delle ostilità la gloriosa AMG Sebastiani Basket.

Tornata la pace, e spentasi rapidamente la fiammata del Rieti in serie B nel biennio 1946-48, nei successivi anni ‘50 e ‘60 il calcio, tra mille traversie e rivoluzioni societarie, faceva avanti e indietro tra promozione laziale, prima categoria e serie D. Negli stessi decenni invece, grazie a validi tecnici e giocatori provenienti dalla scuola della Stella Azzurra Roma – i vari Ferrero, Chiodetti, De Carolis, Marcone, Rocchi, Volpini, Corallo, Costanzo, Spinucci – che affiancavano gli indigeni Franceschini, Roversi, Cavoli, Colarieti, Ferroni, Desideri, Cordoni e Luigi Simeoni, in arte Giggi Fero anch’egli come il leggendario CréCré sportivo polivalente tra atletica, pallanuoto e pallacanestro: il primo capace a schiacciare a canestro al tramonto degli anni ‘60, fu chiamato in prova dalla leggendaria Ignis Varese, però presto abbandonata per nostalgia della natia Rieti – sotto l’acuta regia dirigenziale di Italo Di Fazi la AMG Sebastiani si mantenne regolarmente tra serie C e B, sfiorando una miracolosa promozione in serie A già nel 1965 dopo aver perso una rocambolesca partita a La Spezia.

In quel periodo la AMG Sebastiani coinvolgeva già centinaia di persone che gremivano i gradoni di cemento del campo all’aperto di via San Liberatore – erede dei campi del Molino della Salce e della Snia Viscosa – iniziando a diffondere il virus della palla a spicchi nella Rieti sportiva, ponendosi già come alternativa a un calcio che, come detto, stentava a ridecollare. Erano gli anni del boom economico in cui l’Italia, dopo le drammatiche ristrettezze della guerra, stava tornando a vivere scoprendo le prime vere modernità. All’epoca Rieti era una città fiorente che si stava espandendo oltre il perimetro delle antiche mura romane. Intanto nuove realtà industriali, a cominciare dalla Texas Instruments, si affiancavano alle eccellenze rappresentate da Snia Viscosa, zuccherificio, Torda e Bosi. Il Terminillo era ancora un forte polo d’attrazione non solo per i romani, mentre le caserme Verdirosi e Ciuffelli, tra migliaia di reclute in libera uscita giornaliera e relative famiglie in visita, portavano altra ricchezza in città. Erano anni di grandi trasformazioni sociali, culturali e di costume a cui non rimase indifferente nemmeno la sonnacchiosa Rieti, che seppe coglierle appieno, come ad esempio testimonia l’idea, unica e originalissima,  di organizzare un Festival dei Complessi Musicali – così all’epoca erano denominati i gruppi beat, divenuti poi semplicemente rock – assolutamente alternativo a quello storico e paludato di Sanremo.

In questo clima rinnovamento e modernità, il vero e proprio deus ex machina sportivo per Rieti all’alba degli anni ‘70 fu Renato Milardi: pupillo di Enrico Mattei – il lungimirante industriale che pagò le sue idee rivoluzionarie con un morte tutt’oggi avvolta dal mistero – era divenuto nel frattempo un manager di livello internazionale dell’Eni nel campo dell’energia e dell’alimentazione, ma anche “letteralmente stufo quando viaggiavo per l’Italia di sentire sempre equivocare la targa automobilistica di Rieti con quella di Rimini, che nemmeno era provincia”, e per questo desideroso di fare qualcosa per dare lustro alla propria città.

Milardi – in seguito paragonato a Gianni Agnelli da Aldo Giordani, vate del moderno giornalismo italiano di basket – per ragioni professionali aveva già fatto più volte il giro del mondo, Stati Uniti inclusi, e nella sua perspicacia aveva intuito il grande, modernissimo potenziale spettacolare e promozionale del basket: fu in pratica l’uomo giusto al momento giusto quando si trattò di  raccogliere nel 1971 la presidenza di una AMG Sebastiani Basket in crescita, appena uscita sconfitta dal sanguinoso, in tutti i sensi, spareggio per la promozione in serie B contro Chieti al PalaLido di Milano.

Già da un anno la squadra, sponsorizzata Snia, era appena tornata a Rieti dopo il forzato esilio nella palestra romana del Cristo Re perché in serie C non si poteva più giocare all’aperto, e si era trasferita nel moderno, almeno per l’epoca, caldo e accogliente palazzetto dello sport in riva all’argine del Velino, vicino al Campo Scuola di atletica leggera, che divennero rapidamente un moderno polo d’attrazione alternativo, sia per gli sportivi che per le giovani generazioni, rispetto al vetusto stadio di viale Fassini dove il Rieti Calcio, tra continui rimaneggiamenti societari e di squadra, non riusciva a rilanciarsi.

Al contrario la Sebastiani, divenuta nel frattempo Brina Surgelati – primo di molti sponsor in campo alimentare portati da Milardi – in soli due anni si ritrovò in serie A nel 1973, sotto la guida tecnica del leggendario giocatore-allenatore Gianfranco Lombardi: l’ex star olimpica e della Virtus Bologna che trascinò oltre 2000 reatini, partiti in auto o in uno dei 20 pullman avventuratisi da porta Cintia lungo l’allora tortuosissima Flaminia, verso l’epico e torrido spareggio a Pesaro del 30 giugno, vinto 55-44 sull’Ivlas Vigevano, suggellato dal canestro della staffa realizzato proprio dal reatino Giggi Fero.

Di conseguenza, da un giorno all’altro, il palazzetto dello sport – nel frattempo intitolato alla memoria del prematuramente scomparso provveditore agli studi Luigi Minervini che ne fu uno dei promotori – era già divenuto piccolo e insufficiente a ospitare le future gare di serie A contro Milano, Varese, Cantù e Bologna, e ad accogliere campioni a stelle e strisce come Bob Morse, Chuck Jura, Steve Hawes e John Fultz, mentre il Rieti Calcio – absit iniuria verbis – riceveva al Fassini la Maccarese, l’Allumiere, il Sacrofano o il Torre Maura.

Archivio di Stato di Rieti, Sebastiani Brina, Rieti, 18 novembre 1975
Archivio di Stato di Rieti, Sebastiani Brina, Rieti, 18 novembre 1975

Così, nel 1973/74, la Sebastiani Brina fu costretta a disputare in esilio il suo primo campionato di serie A al PalaEur di Roma, dove circa duemila reatini si recavano sistematicamente ogni sabato in barba all’inutile e ridicola austerity imposta dal governo che, in seguito alla crisi petrolifera mondiale – conseguenza della guerra del Kippur, tra Israele schierato contro Egitto e Siria – dalle 24 di ogni sabato alle 24 della domenica, vietò la circolazione a settimane alterne ai mezzi con targa dall’ultimo numero pari o dispari.

Nel frattempo il vulcanico presidente Milardi, anticipando a suo rischio e pericolo le somme necessarie, poi rimborsate dalla generosa Cassa di Risparmio di Rieti, aveva commissionato la costruzione in pochi mesi del palasport prefabbricato sorto a Campoloniano, per ospitare definitivamente dal 1974/75 le gesta di Bob Lauriski, Luciano Vendemini, Tony Gennari, degli ex campioni milanesi Massimo Masini e Mauro Cerioni, del fuoriclasse messicano Arturo Guerrero, ingaggiato per la prima partecipazione alla coppa Korac da cui la Brina venne eliminata in semifinale niente meno che dai blaugrana del Barcellona.

Archivio di Stato di Rieti, Torneo di basket, 5 maggio 1976

Intanto, mentre nei campetti – oggi si chiamerebbero playground – di San Liberatore, Regina Pacis, Viale Fassini, degli Stimmatini e del Borgo, i ragazzini facevano la fila per giocare a basket, in tante strade e altrettanti palazzi si appendevano canestri posticci ai muri e un po’ ovunque risuonava il ritmico rimbalzo di un pallone. A nessun giovane dell’epoca infatti passava per la testa di prendere a calci una palla, e così crebbero le generazioni da cui emersero i cestisti reatini che hanno giocato in serie A, capitanate da Gianfranco Sanesi – noto come Padella per la precisione al tiro, il più forte giocatore di Rieti in assoluto: playmaker per 12 anni in serie A, grande difensore, dispensatore di assist e tiratore da tre – e seguite dai vari Antonio Olivieri, Luca Blasetti, Piero Torda, i fratelli Stefano e Luca Colantoni e via dicendo. Nel frattempo il reclutamento del settore giovanile aveva già portato da Spoleto a Rieti Domenico Zampolini e Roberto Brunamonti, mentre Lombardi, dopo la breve parentesi del grande ex giocatore Paolo Vittori, era stato rimpiazzato in panchina da Elio Pentassuglia e la Brina era solo temporaneamente discesa nella neonata serie A2.

Archivio di Stato di Rieti
Archivio di Stato di Rieti, Domenico Zampolini, Ferrarese Rieti-I&B Fortitudo Bologna, Campionato 1980-81

Tra 1970 e 1975 erano così già state gettate le basi che poi avrebbero portato a Rieti, grazie al grande rapporto tra Milardi e lo scout italoamericano Richard Percudani, innanzitutto il leggendario Willie Sojourner e, a seguire, Cliff Meely e Lee Johnson, per affrontare due semifinali scudetto e due finali di coppa Korac, conquistando finalmente quest’ultima nel 1980.

Successivamente, per altri decenni, tra mille alti e bassi, si sarebbero succeduti fino ai giorni nostri società scomparse e altre che nascevano, altri campioni, altri allenatori, nonché altri generosi, ma anche coraggiosi o sciagurati presidenti. Compreso l’ultimo: Giuseppe Cattani, nato nel 1964, campione d’Italia allievi del 1979 con la maglia della Sebastiani Arrigoni, oggi alla guida della Npc militante in A2.

Il gene, anzi, il virus della pallacanestro era stato indelebilmente impiantato nel Dna dello sport e della cultura di Rieti, per poi essere trasmesso di generazione in generazione, durante quel quinquennio 1970/75 quando, proprio come aveva desiderato Milardi, e almeno fino ai primi anni ’80, Rieti non fu più epigona di Rimini ma assunse una propria identità nazionale e internazionale, per l’orgoglio di tutta la sua popolazione. Fu proprio allora, mentre Rieti pareva svilupparsi e crescere, che i suoi abitanti, grazie anche al basket – sport “altro rispetto alle consolidate discipline sportive del vecchio continente, importato dagli affascinanti e ancora lontanissimi Stati Uniti, e quindi simbolo di modernità e progresso – sognarono di non essere più soltanto una piccola e sconosciuta provincia dell’impero ma di poter uscire dai propri angusti confini, di farsi conoscere anche fuori dall’Italia e di essere in grado, non solo nello sport, di compiere quel salto di qualità che, inutile indagarne qui le mille e una causa, in realtà non è mai arrivato. Anzi, a distanza di lustri, dobbiamo purtroppo registrare la retrocessione della realtà di Rieti. Guarda caso come quella avvenuta proprio a Rimini, che nel 1988 si prese la sua piccola rivincita morale sul new deal reatino di Renato Milardi – all’epoca ritiratosi già da sette anni – sancendo il ritorno in serie B della AMG Sebastiani dopo quindici stagioni consecutive tra serie A1 e A2.

In altre parole, più e meglio di altre discipline sportive, la parabola della pallacanestro reatina, tra lontani splendori del secolo scorso, cadute e faticose riprese, sembra essere la perfetta fotografia di una città ancora desiderosa, ma con grandissima fatica, di spezzare un guscio che pare la stia avvolgendo, per evitare di cadere nell’oblio definitivo. Forse sarà possibile solo quando Rieti, come pure il basket, non guarderà più alle sue spalle e ai suoi ricordi ma saprà affrontare il futuro a viso aperto e con rinnovato coraggio.