di Egisto Fiori
La festa è sempre accompagnata dal suono della voce umana, dalle danze e da strumenti più o meno elaborati. È per questa ragione che abbiamo incontrato il reatino Raffaello Simeoni, ricercatore, polistrumentista, cantante ed ambasciatore nel mondo della cultura musicale del nostro territorio.
Più che un cantore popolare, Simeoni preferisce considerarsi un rielaboratore della tradizione e l’intervista realizzata nella sua casa posta nel centro storico di Rieti, offre la possibilità di conoscere meglio la ricchezza di un patrimonio culturale il cui studio, si è andato intensificando solo negli ultimi decenni.
Le influenze musicali ricevute da un’area complessa, posta al centro della Penisola, sono probabilmente notevoli ma è lecito immaginare che gli effetti di questo continuo scambio abbiano raggiunto anche luoghi molto lontani. Il reatino, terra di confini e di confinati, abitata da agricoltori, pastori e guerrieri, attraversata dagli antichi sentieri della transumanza e dei mistici, ha ereditato le tradizioni secolari delle genti che vi hanno vissuto e transitato. Nonostante ciò, la ricchezza delle tecniche e degli strumenti musicali che caratterizzano le diverse zone della provincia, testimonia il forte radicamento di tradizioni locali sulla cui origine ancor poco si è indagato. L’amatriciano ad esempio, è famoso nel mondo non solo per la sua gastronomia, ma anche per le sue zampogne e ciaramelle.
La musica ha sempre sottolineato i passaggi più significativi delle esistenze individuali e delle comunità di riferimento e spesso, risulta difficile stabilire una soglia che separi con certezza le manifestazioni di religiosità e di spiritualità da quelle più profane. Nel mondo agricolo e pastorale, così intimamente legato al ciclo delle stagioni, nonostante il sincretismo operato dal cristianesimo, sopravvivono ritualità antichissime che si manifestano ancor oggi, tramite il canto, la realizzazione di strumenti legati al mondo vegetale ed animale e al loro utilizzo.
Nell’Alta Valle del Velino resiste e per alcuni versi sta tornando in auge, la tradizione del canto a braccio, basata su composizioni poetiche in ottava rima, sovente di contenuto satirico. Queste venivano improvvisate dai cantori in singolar tenzone, nelle osterie o durante le feste e non erano infrequenti le serenate in occasione di matrimoni, eventi in cui i poeti, spesso famosissimi tra i loro conterranei, divenivano i protagonisti di serate che coinvolgevano l’intera comunità. L’ottava rima incatenata era la tecnica più usata e la perizia del poeta-cantore, il cui fine era quello di mettere in difficoltà l’avversario suscitando la generale ilarità, consisteva nel chiudere l’ottava con una rima molto difficile. Queste particolari tenzoni poetiche erano non di rado, accompagnate dal suono dell’organetto o da quello delle ciaramelle.
Nel nostro territorio, le feste, il canto e le danze chiamavano principalmente in causa gli strumenti a percussione ed i fiati. Questi ultimi, a differenza di altri più elaborati, potevano essere realizzati anche con ossa di animali o con semplici canne. Tra le centinaia di esemplari provenienti da tutto il mondo, Raffaello Simeoni ha scelto di suonare per noi alcuni strumenti a fiato facenti parte della sua vasta collezione, fornendoci in questo modo, un’interessante, seppur breve e parziale, dimostrazione delle diverse tecniche utilizzate e della ricchezza di sonorità presenti nella tradizione musicale del Centro Italia.
ZAMPOGNE E CIARAMELLE
Come già accennato in precedenza, tra gli strumenti prìncipi della nostra tradizione musicale troviamo le zampogne e le ciaramelle. Lo strumento bicalamo, cioè a doppia canna, è presente soprattutto nella zona dell’Alta Sabina che comprende la conca amatriciana e le alte valli del Tronto e del Velino. La zampogna è caratterizzata dall’aggiunta di una riserva d’aria, costituito da un otre di origine animale. Molti ricercatori, considerano questo strumento come l’erede della zampogna latina, a sua volta derivazione delle tibiae, o aulos frigio.
Raffaello Simeoni, durante l’intervista, si è soffermato a lungo su questi strumenti dalle origini antichissime e sulle similitudini con altre tradizioni musicali come ad esempio, quella delle launeddas sarde.
«Udii tra il sonno le ciaramelle, / ho udito un suono di ninne nanne. / Ci sono in cielo tutte le stelle, / ci sono i lumi nelle capanne. / Sono venute dai monti oscuri / le ciaramelle senza dir niente; / hanno destata ne’ suoi tuguri / tutta la buona povera gente. […]»[1]. Giovanni Pascoli dedicò alle ciaramelle una poesia di cui abbiamo riportato i primi versi. Il componimento riafferma il legame indubbio tra il suono di questi strumenti e le festività natalizie ma al contempo, rafforza stereotipi consolidati. Il suono delle ciaramelle, spesso insieme a quello delle zampogne, sottolineava infatti quasi tutte le feste importanti e non solo quelle legate all’Avvento.
Non è un caso che uno dei temi ricorrenti e comuni alle tradizioni orali della Valnerina, del Cicolano, dei monti della Laga e dell’Abruzzo riguardi la figura dello zampognaro impegnato a suonare e partecipare alla danza delle fate. Questo legame con il soprannaturale, presente tra l’altro anche nella tradizione in ottava rima, potrebbe essere la testimonianza, di collegi divinatori femminili presenti in zona, sfuggiti ai pesanti tentativi di evangelizzazione cristiana.
Particolarmente documentato è l’utilizzo della zampogna durante la celebrazione dei matrimoni. La sonata della sposa può essere considerata una vera e propria suite in tre movimenti che accompagna lo svolgimento della cerimonia nuziale. La piagnereccia che si svolge davanti al portone della casa paterna della sposa, è il primo movimento. La sua triste melodia e gli effetti sonori della zampogna, simulano il pianto della ragazza per l’abbandono della casa di famiglia. Con l’avvio del corteo nuziale, aperto dallo stesso, lo zampognaro esegue la camminareccia. All’uscita degli sposi dalla chiesa viene invece eseguita la crellareccia, dal ritmo decisamente più sostenuto e in genere, accompagnato dal tamburello.
Tra i suonatori più famosi dell’amatriciano, va senza dubbio ricordato Alfredo Durante, detto Raffone. Una sua esecuzione, registrata nel 1954 dal grande etnomusicologo Alan Lomax, fu anche inserita nel disco Italian Treasury, folk music and songs of Italy. Sulla figura di Raffone e sulla zampogna amatriciana ci sarebbe molto da aggiungere ma per ulteriori approfondimenti, è possibile, ancora una volta, approfittare della preziosa narrazione di Raffaello Simeoni.
LE DONNE E I RITMI
Il Carnevale, la Pasquarella e il Cantaova, il Natale e la Settimana santa, l’Ascensione ed il Santo patrono. Le ricorrenze diversamente celebrate nel nostro territorio sono molte, spesso di origine antichissima e quasi sempre coincidenti con i più importanti momenti dell’anno legati al mondo dell’agricoltura e della pastorizia. Queste feste hanno quasi sempre una corrispondenza gastronomica ricca di dolci e piatti tipici di cui, molto spesso, si è smarrito il profondo significato legato alle forme, all’utilizzo di particolari ingredienti e a volte, anche ad una ritualità che accompagna l’intera lavorazione di queste prelibatezze.
Durante l’intervista, Raffaello Simeoni ha sottolineato ripetutamente il ruolo delle donne anche all’interno della tradizione musicale. Soprattutto in alcune aree geografiche, era prerogativa del mondo femminile non solo il canto e la danza ma anche il compito di tenere il ritmo con il tamburello ed altre percussioni.
Nonostante le particolarità legate alle diverse aree, possiamo affermare che nel territorio reatino l’aspetto unificante sia costituito dal saltarello, molto affine alle tarantelle meridionali. Questa danza accompagnava la raccolta del grano, la spannocchiatura, la trebbiatura e la vendemmia ma ancor più spesso, veniva praticata nei momenti di pausa lavorativa o durante i matrimoni. Per vari ricercatori, il saltarello, ballato forse originariamente da sole donne, nacque come danza di corteggiamento, evocando l’unione tra terra e fuoco, tra essenza femminile e maschile. Si tratta di una danza vivace e ritmata caratterizzata da piccoli salti veloci che attualmente, viene accompagnato generalmente dall’organetto. Come però si evince chiaramente anche dall’intervista, l’organico era costituito originariamente da zampogna, ciaramella, tamburello e soprattutto più a sud, dalla tammorra. Il ballo, secondo un’usanza molto diffusa nel Regno di Napoli, viene chiamato saltarella, al femminile, così come accade per la zumparella, la ballarella, la tammurriata e la pizzica. Già nel 1688 il poeta Giovanni Camillo Peresio descrive le movenze di tale danza:
«[…] E’l Ballo fecer poi del Saltarello, / al son d’un Chitarrino, e un Tamburello. / De fronte preso da otto Donne el posto, / e in simil modo incontro a loro in fila, / Otto sbarbati, e ognu’uno al bal desposto, / la reuerenzia in bella foggia sfila. / A un tempo, doppo van de faccia accosto, / e presi pè le man ciascuno s’affila / e’l Capoballo co’ un zompar giocondo, / serpeggia prima, e poi regira tondo»[2].
Come avviene anche in altre regioni, nel territorio reatino, il tamburello viene suonato con diverse tecniche e Raffaello Simeoni ci ha offerto una breve ma efficace dimostrazione che ancora una volta, chiama in causa le tradizioni musicali dell’area amatriciana.
La musica, il canto e il ballo sono gli elementi costitutivi di ogni festa, elemento unificante della comunità ed evento comune a tutta la specie umana. Le donne che da sempre ne sono state protagoniste, non di rado, appaiono anche depositarie di un sapere antico, a volte ancestrale, che seppur mitigato nel corso del tempo, si manifesta ancora nella sua potenza vitale.
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[1] Giovanni Pascoli, Le ciaramelle, 1901, in Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio, Milano, BUR Rizzoli, 2009.
[2] Giovanni Camillo Peresio, Canto Decimo, in Giovanni Camillo Peresio, Il maggio romanesco ouero il palio conquistato poema epicogiocoso nel linguaggio del volgo di Roma, Per Bernardino Pomatelli, 1688, pp. 336-337.