La prima e la seconda uscita del pcto “L’Officina di Didattica Luce in Sabina” lasciano il passo al terzo gruppo di storie che hanno tutte a che fare con la guerra, un momento in cui le comunità vengono messe in pericolo, si rafforzano e riscrivono la loro identità.
Roberta Tomassetti fa rivivere al nonno quello che ha vissuto durante il secondo conflitto mondiale a Capradosso, in provincia di Rieti. Veronica Chartouni risponde in chiusura con una testimonianza dell’adolescenza del padre a Beirut, trent’anni dopo. In mezzo si dipanano le strisce di fumetto e le illustrazioni con cui vengono restituiti frammenti di memoria di alcuni nonni sulla seconda guerra mondiale dalla piana reatina ad Antrodoco, passando per Roma. Tutto questo attraverso la creatività di Sabrina Tolomei, di Susanna Mattei e di Sirja Fusacchia in gruppo con Isabella Tulli, Lucia Nino e Daria Yevtushenko.
In copertina c’è ancora il Terminillo, ma è quasi irriconoscibile, come se ci fosse stato un evento bellico a stravolgerlo.
Immagine di copertina: Archivio di Stato di Rieti, Fondo EPT della Provincia di Rieti, Terminillo. Illustrazione di Jacopo Romani.

Oggi vi racconterò qualcosa della mia vita, mettetevi comodi. Sono Albino Mariani, nato a Capradosso il 1 marzo 1938. Io, mamma, papà e le mie due sorelle più grandi, essendo poveri, vivevamo in una casa alquanto malmessa ma non potrò mai dimenticare la pulizia e l’atmosfera famigliare che c’erano. Durante la seconda guerra mondiale, nel 1945, avevo sette anni e in quel periodo la vita era dura. Vedevamo passare costantemente aerei militari che disturbavano la nostra tranquilla quotidianità di campagna. Gli adulti erano sempre preoccupati e avvolti dall’ansia della guerra, si viveva in un clima pesante per tutti. Più di una volta per la paura che i tedeschi ci potessero uccidessero sono stato portato da mio padre insieme ad altri bambini del paese in montagna. Ci lasciavano in una grotta ben nascosta nei giorni più difficili e pericolosi con dei cesti pieni di cibo e qualche gioco per passare il tempo. In quei momenti, essendo bambini, non sentivamo la tensione e la paura che in realtà tutti i nostri genitori avevano, ma vivevamo la situazione quasi come un gioco. Chi era più fortunato economicamente aveva le coperte con cui riscaldarsi la notte, mentre chi come me non aveva granché per superare le freddi serate in montagna usava come fonte di riscaldamento l’abbraccio. E si proprio così passavamo le notti abbracciati per non sentire freddo ed era una sensazione bellissima, eravamo tutti uniti per cercare di non pensare negativo e sempre pronti ad aiutarci a vicenda. Di aneddoti da raccontare ce ne sarebbero veramente tanti. Adesso vorrei parlarvi dell’educazione scolastica. A Capradosso la scuola veniva fatta dalla Signora Iole, anche perché non c’erano altre persone acculturate in paese. Le lezioni si svolgevano a casa sua. Il rapporto tra insegnante e alunno era profondamente autoritario e distaccato. La maggior parte dei miei compaesani si fermava alla quinta elementare perché pensavano già al lavoro, ad aiutare la famiglia nei campi o con le bestie. Io invece ho sempre amato studiare, avevo una grande passione per il francese e purtroppo, ma non avendo le possibilità economiche non ho potuto frequentare un collegio. Mi sono dovuto rimboccare le maniche e andare avanti. Così verso i 14 anni sono partito per Roma dove lavorava già una mia sorella e da lì è iniziata un’altra vita. Ho sempre lavorato e svolto i più svariati impieghi, sono passato dal venditore di libri all’impiegato della Luiss, dove ho avuto l’opportunità di entrare a contatto con figure di rilievo del periodo ma soprattutto con la cultura. All’inizio è stata dura per me adattarmi a Roma che comunque era molto più grande del mio paese. Non vi ho raccontato che un decimo della mia lunga vita, ma spero di avervi fatto almeno comprendere quanto oggi siete fortunati. Abbiamo medicine, telefoni, macchine, lavatrici ecc… tutto ciò che noi generazioni passate non abbiamo mai avuto.
Albino Mariani
Narrazione di Roberta Tomassetti (IIS “Elena Principessa di Napoli” – Liceo linguistico)
Durante la guerra, nel 1945, avevo solo cinque anni. Noi abitavamo nella piana reatina. Ricordo che le truppe dei tedeschi venivano in campagna per prendersi gli animali, maiali, galline, per fare provviste.



Quando c’era un allarme aereo dovevamo abbandonare casa e nostra madre doveva portare tutti noi al sicuro. Ci urlava “Correte! Arrivano gli aerei che bombardano casa!” e ci andavamo a rifugiare dentro le “forme”, come noi in campagna chiamavamo i canali, spesso con poca acqua.
Una cosa che mi è rimasta impressa, è quando mio fratello Bruno mentre correva al riparo perse una scarpa e cercò comunque di andarla a riprendere, mentre mia madre gli urlava di lasciarla lì. Le scarpe all’epoca ci sembravano importanti dato che la maggior parte delle volte andavamo scalzi.
Nel dopoguerra, quando avevo dieci anni, andavo a scuola, ma non sono riuscito a finire la quinta elementare. Infatti mi sospesero e non mi fecero fare gli esami. Ricordo che il giorno in cui mi sospesero non tornai a casa per la paura, ma i miei genitori se ne accorsero comunque quando la scuola li chiamò.
Gino Grillo
Narrazione di Sjria Fusacchia, Isabella Tulli, Lucia Nino, Daria Yevtushenko (IIS “Elena Principessa di Napoli” – Liceo artistico)

Una cosa che mi è sempre rimasta impressa è quando si presentarono a casa dei miei genitori i tedeschi. Cercavano dei ragazzi che si erano nascosti per non andare in guerra. Sono venuti e hanno fatto il giro di tutto il palazzo dove abitavamo, in via Savoia a Roma. La signora davanti a noi aveva due figli e uno dei quali si era nascosto. Quando sono andata ad aprire la porta, in casa eravamo solo io e mia madre e quello che io non ho mai dimenticato sono stati questi due tedeschi, con la divisa e gli occhi freddi. Sono entrati e hanno parlato con mamma, le hanno chiesto i documenti di papà e di mio fratello. Come erano entrati se ne uscirono con saccenza e superiorità.
Elena Giarrusso

Ricordo anche del primo incontro con gli americani proprio alla fine della guerra. Era maggio, una giornata splendida. Allora mia sorella Maria disse a mamma che mi avrebbe portata a Villa Borghese. Mamma si raccomandò di stare attente, visto che c’erano gli americani alle porte di Roma, e di tornare presto. Stavamo camminando con Maria, mano nella mano, su Corso d’Italia quando sentiamo un rumore sordo provenire dal fondo della via. Ad un certo punto vediamo spuntare un intero reparto di americani con jeep, i tenenti, i soldati e venivano tutti dalla parte opposta alla nostra. Maria era un po’ spaventata e disse “Oddio! E ora chi lo dice a mamma?”. Io ricordo di averle risposto “Maria, non ti preoccupare, noi andiamo di qua, a Villa Borghese, a noi che ce ne importa?” e riprendemmo a camminare. A un certo momento ci accorgemmo che tutta la colonna si era fermata. Il tenente scende dalla jeep ferma e mi viene incontro. Mi porge un fazzoletto con cui era incartato qualcosa. Lo presi e ringraziai. Il tenente fece un mezzo sorriso, rimontò sulla jeep e la colonna ricominciò a marciare. Per la curiosità lo aprii e ci trovai due pezzi di qualcosa che non riuscivo a riconoscere. Chiesi a Maria: “Ma questo cos’è?”. Mia sorella, un po’ sorpresa, disse “Elena, tu non te lo ricordi, ma questo è pane bianco. Tu conosci solo il pane nero, quella schifezza che stiamo mangiando adesso”. Erano due pezzi di cioccolato bianco.
Elena Giarrusso
Narrazione di Sabrina Tolomei (IIS “Elena Principessa di Napoli” – Liceo artistico)
Per quanto riguarda la guerra, ricordo il primo novembre 1943, ero una bimbetta di cinque anni, accompagnata da colei che sarebbe poi diventata la mia madrina di cresima, partecipando alla messa solenne di tutti i Santi nel mio paese, Antrodoco. All’improvviso un rumore cupo, minaccioso, soffoca i canti e le preghiere e quasi contemporaneamente botti fortissimi, vetrate che si rompevano, schegge che schizzavano di qua e di là, chi urlava, e si metteva le mani nei capelli, tutti strillavano e correvano come impazziti verso la porta della chiesa. In quello stato di confusione generale in cui si inciampava gli uni sugli altri, fra strilli, spinte, e inconsapevoli scorrettezze, la mia manina lasciò quella della mia accompagnatrice e mi trovai sola in mezzo alla chiesa senza minimamente rendermi conto della gravità della situazione. Una persona, sicuramente di buon cuore, mi prese e mi portò fuori; lo spettacolo di devastazione che si presentava davanti ai miei occhi era indicibile: calcinacci da tutte le parti, mucchi di macerie, pezzi di vetri e tegole rotte, sassi. Non ricordo bene se mi fossi incamminata verso casa, né come abbia incontrato mia madre, che ci raccontò dopo, che era sola in casa ed è uscita, quasi impazzita perché noi eravamo tutti fuori. Mi rasserenai fra le sue braccia e lei, con me avvinghiata al collo, ha continuato la ricerca dei miei fratelli. Ci siamo ritrovati tutti e di corsa siamo andati verso una galleria ferroviaria vicina a casa mia perché qualcuno diceva che fosse l’unico posto sicuro dove le bombe non potevano arrivare. All’ingresso della galleria c’era una signora visibilmente provata, distesa alla meglio su una sedia e tutta avvolta di plaid e coperte di fortuna: la poverina aveva appena partorito e non poteva stare dentro la galleria perché aveva bisogno di aria. A fianco aveva la sua mamma con un fagottino in mano che sembrava di stracci: era la sua bambina. Nella galleria ci siamo spinti molto in avanti perché eravamo tantissimi, un paese intero. Il buio era totale. Qualcuno che aveva una torcia ogni tanto la accendeva e si vedevano, nelle parti della galleria, delle piccole nicchie nelle quali fortunatamente abbiamo trovato riparo ammassati l’uno sull’altro nel momento in cui è passato un treno e l’aria è diventata irrespirabile con quell’odore acre di carburo che ci prendeva alla gola. Così siamo andati all’uscita opposta della galleria e di lì ci siamo incamminati per la stradina verso un paesino che era a quattro km di distanza, in montagna, per sfuggire ad altri bombardamenti che ci sarebbero stati sicuramente visto che il mio paese era un punto di snodo importante con tre ponti che lo collegavano a località opposte tra loro. Eravamo sfollati. Il paesino era piccolissimo: poche case di pietra o mattoni, basse con finestre minuscole, ma era ridente perché prendeva sole da tutte le parti e poi era lontano dai bombardamenti che ancora continuavano facendo salire verso il cielo gigantesche colonne di fumo che noi ci eravamo lasciati alle spalle ma che, purtroppo, continuavamo a vedere, anche se finalmente al sicuro. La nostra casa era essenziale, a dormire dovevamo andare in uno stanzone enorme, pieno di letti, tanti, che dovevamo dividere con la famiglia di mia zia. Una sera, andando a letto e sollevando le coperte, abbiamo trovato tre topolini, che avevano pensato bene di mettersi al calduccio. I mesi passavano e le provviste stavano finendo. In casa era rimasto solo mezzo sacchetto di semola e mia madre ci faceva una specie di focaccia ogni sera. Mia sorella, che era la più “schifiltosa” della famiglia, non riusciva a mangiarla, però non chiedeva niente. Finalmente è arrivato l’8 settembre, qualcuno ha dato l’allarme intimandoci di fuggire verso la montagna perché si temevano le rappresaglie dei tedeschi. Tutti; vecchi, bambini, donne, uomini, ci incamminammo senza sapere dove stessimo andando: correvamo nel sentiero intimoriti, affannati, con un senso di paura incredibile che ci afferrava il cuore. Dopo aver camminato tanto, abbiamo trovato una piccola capanna di legno che però ci sembrò una reggia perché ci potemmo riposare. Fuori c’era un sole stupendo, cominciava a vedersi l’arrivo dell’autunno, di cui il rosseggiare di alcune piante era l’inizio, ma nessuno di noi riusciva ad andare fuori per ammirarlo: eravamo troppo prostrati dalla stanchezza, dalla fame e dalla paura. In questa situazione di precarietà assoluta, nella quale ci stringevamo l’uno all’altro per farci forza, arrivò una donna con un recipiente pieno di zuppa di fave, e non era stagione di fave, ce le offrì con il cuore: io non so chi fosse, forse la Provvidenza. Ancora oggi io adoro le fave e quando è la loro stagione racconto ai miei nipoti questo fatto e ringrazio di cuore idealmente, quella santa donna.
Maria Barbara D’Ilario

Narrazione di Susanna Mattei, Sabrina Tolomei (IIS “Elena Principessa di Napoli” – Liceo artistico)

Siamo nel 1975, anno in cui si scatenò la guerra civile in Libano. Avevo all’incirca 15 anni e un mattino mi svegliai di soprassalto, convinto di essere in ritardo per andare a scuola, ma i miei genitori mi informarono che non avrei potuto prendere l’autobus perché erano insorti problemi di ordine pubblico. Subito dopo scoprii che a Beirut era iniziata una guerra civile e per questo la città si trovò suddivisa in due fazioni: la fazione ovest, costituita da una maggioranza ebraica, e la fazione est, con maggioranza cristiana. Insieme alla mia famiglia abitavo nella fazione est e non ci era permesso spostarci nell’altra fazione, altrimenti si rischiava la propria vita venendo sparati da franchi tiratori o colpiti da bombe mentre si attraversava il confine. Non potei più frequentare la scuola poiché era situata al di fuori della città, e raggiungerla avrebbe significato attraversare strade troppo pericolose. Inoltre, ai miei tempi, Internet non era ancora stato inventato e non disponevamo di alcun dispositivo di comunicazione, quindi non potevamo in alcun modo partecipare alle lezioni. I ripetuti bombardamenti distrussero con il tempo diversi edifici della città oltre ai mercati caratteristici e a numerose attività commerciali. Durante questi episodi di guerriglia molte persone vennero uccise. Personalmente ebbi modo di assistere ad alcuni di questi episodi drammatici mentre mi spostavo fugacemente per le vie del quartiere. Il ricordo di quei momenti terribili di vita vissuta sono purtroppo sempre presenti; ricordo ancora la sensazione di forte paura provata in quelle situazioni estremamente pericolose, mentre davanti agli occhi morivano più persone, e lo stato di agitazione mentre cercavo di fuggire per evitare di essere colpito. Anche le mie relazioni personali furono molto ridotte poiché molti amici e parenti abitavano nella fazione opposta e per diverso tempo non potei vederli. Ricordo che durante l’estate del 1975 io e la mia famiglia ci trasferimmo a Chartoun, un paesino a qualche chilometro da Beirut, e lì rimanemmo per qualche mese, durante i quali potei frequentare una scuola, ma in modo molto discontinuo. L’anno dopo tornammo a Beirut e da lì partimmo per Cipro insieme ad una zia materna attraverso un porto illegale. La permanenza a Cipro durò circa un anno, fino alla fine della guerra civile. Durante il mio soggiorno in questa città io frequentai molto poco la scuola, perdendo ulteriori periodi di studio, ma riuscii a vivere in modo più tranquillo insieme alla mia famiglia ed ai miei parenti. Ebbi anche modo di mantenere i contatti con i miei amici di Beirut inviando loro delle lettere attraverso persone che viaggiavano e si rendevano disponibili per questi servizi. Quando tornammo a Beirut l’1 gennaio 1977 la guerra era terminata da poco e scoprimmo che nel frattempo la nostra casa era stata saccheggiata e parzialmente danneggiata dalle bombe. Il pomeriggio dello stesso giorno io andai alla ricerca dei miei più cari amici e fu per me un incontro molto commovente dato che non li vedevo da tempo. A Beirut tutto era cambiato, a partire dalle strade, dai numerosi edifici danneggiati e dalle persone traumatizzate. Da una parte c’era la speranza di poter tornare ad una vita normale, dall’altra la consapevolezza che non tutto era finito. Col passare dei giorni noi tornammo a scuola, e si ripresero pian piano tutte le attività essenziali. Purtroppo non si trattò di una pace duratura, ma fu soltanto una tregua prima dell’insorgere di altre guerre, che avrebbero causato altrettante morti e massacri.
Georges Chartouni
Narrazione di Veronica Chartouni (IIS “Elena Principessa di Napoli” – Liceo linguistico)