Esempi di applicazione delle leggi di tutela del patrimonio culturale nello Stato pontificio attraverso le carte della Delegazione apostolica di Rieti dal 1821 al 1859
a cura di Maria Giacinta Balducci, Liana Ivagnes, Elisabetta Tarsia
Con il presente contributo abbiamo voluto evidenziare, all’interno della documentazione della Delegazione apostolica di Rieti, tra i tanti possibili percorsi di studio, quello relativo alle autorizzazioni agli scavi ed alle vicende della tutela del patrimonio storico artistico. Sappiamo che lungo è stato il percorso di formazione della consapevolezza dell’importanza delle opere d’arte, intese come testimonianza storica di un’epoca, della sua cultura e civiltà, di cui diventa pertanto doveroso garantire la tutela a beneficio della collettività. La nascita di questa consapevolezza trova riscontro nell’emanazione di una legislazione specifica e di una conseguente terminologia, che evolve da “antichità e belle arti” o “oggetti di antichità e arte”, fino alla relativamente recente definizione di “bene culturale”. L’interesse per i problemi della conservazione e della tutela del patrimonio storico si manifesta nello Stato della Chiesa già nel Rinascimento, con i primi tentativi di creare delle norme legislative a difesa del settore. La vera svolta però, si ebbe a seguito delle spoliazioni effettuate nel periodo francese e della successiva caduta di Napoleone, che rese impellente per tutti gli Stati italiani sviluppare una legislazione adeguata ed evitare l’esportazione delle cose d’antichità fuori dai confini nazionali. Anche in questo caso, lo Stato pontificio precede e segna il percorso per gli altri Stati italiani, grazie alla figura del cardinal camerlengo Bartolomeo Pacca. Tra le funzioni del camerlengo, rientravano infatti anche quelle relative alle antichità e belle arti, cui Pacca attribuì sempre grande rilevanza, chiamando come collaboratori Carlo Fea e Antonio Canova ed affidando, già nel 1814 a Vincenzo Camuccini la neo istituita carica di ispettore delle pitture. Si inaugurava così una stagione di restauri in un settore a lungo trascurato, prima grazie a un editto del marzo 1819 che regolava le vendite di archivi e manoscritti, cui seguì, il 7 aprile 1820, il più noto Editto Pacca sulle antichità e gli scavi, grazie al quale, riprendendo il chirografo di Pio VII del 1802 alla luce dell’esperienza amministrativa francese, si istituiva una rete amministrativa territoriale alle dipendenze della Commissione di belle arti di Roma.

L’editto è stato il primo organico provvedimento legislativo in materia di beni culturali, che imponeva agli enti ecclesiastici e secolari di inviare l’elenco degli oggetti d’arte, regolamentava gli scavi, l’alienazione dei beni e le esportazioni anche da parte dei privati, estendendo la tutela a diverse tipologie di beni. In esso inoltre, per la prima volta, si affermava il concetto della supremazia dell’interesse culturale pubblico sull’utile privato1. Anche per questo è considerato il testo legislativo più innovativo e moderno dell’epoca, modello al quale si ispirò la legislazione di diversi Stati preunitari ed a cui continuò per molti anni a far riferimento anche il neonato Stato italiano.
Dell’applicazione pratica dell’Editto Pacca nella provincia di Rieti, si trova ampio riscontro nella serie Finanze dell’archivio della Delegazione Apostolica di Rieti, dove, sotto la classifica 4.4. a partire dal 1821, possiamo seguire, tra l’altro, tutto l’iter descritto nell’editto per la concessione delle licenze di scavo. Proprio in quest’anno, ad esempio, all’arrivo di una richiesta di licenza al Camerlangato, retto proprio dal cardinal Pacca, per scavi nel territorio di Paganico ai confini di Collalto, veniva interessata la Delegazione apostolica, affinché disponesse le verifiche ed interessasse la Commissione ausiliare di antichità e belle arti, nell’ambito della quale spicca la figura di Angelo Maria Ricci, cui qui, come altrove, vengono richiesti sopralluoghi e pareri. Secondo quanto disposto dall’editto Pacca, gli scavi potevano essere effettuati a seguito di esibizione della proprietà del terreno o dell’autorizzazione del proprietario2.

Gli intraprendenti lo scavo dovevano dichiarare la situazione del terreno dove intendevano scavare, seguivano poi le ispezioni necessarie e, se i pareri della commissione ausiliare e di quella di Roma erano positivi, il permesso veniva accordato e rilasciato all’intraprendente gli scavi, a seguito del pagamento delle competenze all’ufficio notarile della Camera apostolica, e poteva comprendere anche una serie di prescrizioni, come ad esempio la distanza dalle pubbliche vie o da antichi edifici. È questo il caso della licenza di scavo concessa a Nicola Palmieri in località Colle Trajanese, nei pressi di Scandriglia, dove la presenza di alcuni ruderi, facendo ipotizzare resti delle terme di Traiano, citati in dal testo del Guattani sui monumenti sabini3, impose uno spazio di rispetto di 15 palmi dai ruderi suddetti, per consentire ad Angelo Maria Ricci di effettuare le ispezioni4. Una volta avviato lo scavo, gli intraprendenti dovevano inviare una relazione settimanale alla segreteria del Camerlangato ed alla segreteria della Delegazione, con l’elenco e la descrizione esatta degli oggetti rinvenuti, così da consentirne l’esame da parte della Commissione delle Belle arti, cui spettava valutare l’eventuale interesse per il Governo, che in caso positivo procedeva all’acquisizione per incrementare le pubbliche collezioni. Fino alla valutazione della Commissione, gli oggetti rinvenuti non potevano essere né venduti né ritoccati o restaurati. In caso di mancata denuncia, l’ammenda era di 50 scudi, arrivando a 100 in caso di vendita. Qualora, dopo la verifica della Commissione, il proprietario avesse deciso di conservare per sé gli oggetti rinvenuti e prescelti dal Governo, poteva farlo, a patto di notificare l’eventuale successiva vendita e garantire la priorità al Governo per l’acquisto.
Anche gli edifici ed i ruderi antichi, sia sopraelevati che rinvenuti nel sottosuolo, erano oggetto di analoghe forme di tutela, la loro distruzione poteva avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione. Per questo, quando lo stesso Nicola Palmieri di Scandriglia5 chiese l’autorizzazione a demolire alcuni ruderi in terreno di sua proprietà, sempre in località Colle Trajanese per recuperare i materiali di costruzione, il parere di Angelo Maria Ricci per conto della Commissione ausiliare, fu negativo. Allo stesso modo, il rinvenimento di tombe antiche e di tracce di antichi edifici doveva essere segnalato, come nel caso di presunti scavi clandestini del sepolcreto di Pratoianni presso Roccasinibalda, dove si rinvennero antiche monete poste all’interno di due vasi poste accanto ai resti di un corpo umano6.

Ma poiché è sempre difficile mantenere i segreti nelle piccole comunità, non mancano certo i casi in cui la segnalazione di scavi clandestini o di rinvenimento fortuito di oggetti, arrivava non dagli interessati, ma da denunce di terzi. È il caso della segnalazione fatta nel 1835 dalla popolazione di Mompeo alla Segreteria di Stato, circa il rinvenimento da parte di alcuni abitanti, di cui si fanno nomi e cognomi, di un tesoro in monete d’oro scoperto nei pressi della chiesa di S. Egidio7. Nello stesso anno, per un analogo rinvenimento fortuito da parte di un contadino di Roccasinibalda, in un terreno di proprietà dei marchesi Curti Lepri, dove stava lavorando, si arriva all’arresto, per non aver informato le autorità ed aver rivenduto le monete. Dal carcere, il contadino inviava la supplica per la liberazione, nella quale si difendeva, affermando «di essere ignorantissimo» e di non sapere dell’obbligo di denuncia, ma di averli portati all’arciprete per farli benedire, poiché da bambino gli avevano detto che «i tesori della terra sono di proprietà del demonio»8. Nel 1838 è invece lo stesso Giovanni Rinaldi, possessore di un terreno a Montasola, a dare notizia della scoperta fatta da due suoi operai di un mezzo busto di marmo giallo e di alcune monete, invia le monete, ma riferisce che a detta degli operai, il mezzo busto era stato rubato, ma che poteva essere presso tal Nardi di Cottanello. Svolte tutte le indagini del caso, emerge che il Nardi aveva acquistato il busto dagli operai stessi, nel frattempo resisi irreperibili9. Nel 1839 il Governo di Poggio Mirteto dava notizia di scavi clandestini avvenuti a Vacone da parte dei fratelli Silvestri, Giuseppe Cherubini e Gaspare Virgili, che già avevano eseguito uno scavo senza permesso, ed ora proseguivano in un fondo vicino denominato Paco di proprietà dei marchesi Marini. Si eseguirono indagini e si intraprese la procedura criminale a carico degli scavatori abusivi, che vennero condannati dal Tribunale di prima istanza alla multa di scudi 200, alla perdita degli oggetti rinvenuti ed al pagamento delle spese processuali10. Tra gli scavi, sono da segnalare in questi anni, quelli eseguiti a Monte Calvo presso Scandriglia, con regolare licenza da Francesco Capranesi con Sabatino del Muto come direttore dei lavori. Si trattò di vere e proprie campagne, condotte in una località, quale quella di Scandriglia che ospitò in epoca romana diverse ville patrizie, tra cui il grande “fundus scandillianus” della ricca famiglia senatoriale degli Scandillii, da cui deriva l’attuale denominazione. Nello specifico, in località Monte Calvo, a partire dal 1824, si rinvennero numerosi resti di costruzioni e numerose statue marmoree ben conservate riferibili ad una villa romana databile tra il I e il II secolo d.C., identificabile con quella dei Brutti Praesentes. Tali ritrovamenti, documentati non solo nelle carte della Delegazione apostolica, ma anche in letteratura contemporanea11, vennero in possesso del principe Borghese-Aldobrandini, grande estimatore di antichità, che intendeva fregiarne il suo museo di villa Pinciana. Molte di queste opere sono oggi in collezioni private, al museo Borghese di Roma ed al N. Carlesberg Glyptotek di Copenaghen. Nelle carte della Delegazione apostolica di Rieti, troviamo testimonianza delle concessioni e dei rinnovi delle licenze di scavo a Capranesi nel corso degli anni, insieme a tutto il carteggio relativo alla sorveglianza del sito ed alla comunicazione degli oggetti rinvenuti. Nel 1833 abbiamo notizia del rinvenimento, prima di una statuetta di donna mutila di braccia e acefala e di un pezzo di colonna, successivamente di una statua marmorea maschile di pregevole fattura, di una testa cinta di edera e di frammenti di mosaico che giacevano nel sotterraneo di un tempietto diruto12. Nel 1835, una nota di Sabatino del Muto elenca 4 statue: «un dorso di uomo colosale con mezza testa, una statua al naturale di uomo mancante la testa e le braccia in posizione a sedere, una statua di uomo mancante mezza testa braccia e piedi, una statua di uomo»13. Negli anni precedenti, sappiamo che nella stessa località, durante la campagna di scavo di Capranesi si rinvennero «la serie di Muse corrispondente a quella del Vaticano, e nell’anno 1829 un busto di M. Aurelio ed altri oggetti». Intorno al 1835, si fece un’altra importante scoperta, la statua frammentaria di un Giove e di altre statue rappresentanti i ritratti di poeti greci, per il cui restauro si propose l’intervento del Thorwaldsen14 . Altre licenze di scavo vennero concesse a Capranesi tra il 1838-1839 per effettuare scavi nei terreni di proprietà del Collegio Romano in località Ponticelli.
L’attenzione alla tutela non diminuì neanche a seguito del passaggio delle attribuzioni relative alle belle arti al Ministero del commercio, belle arti e lavori pubblici, istituito da Pio IX con Motu proprio del 30 dicembre 1847. La guida di tale ministero, dopo l’iniziale delega attribuita a Giuseppe Pasolini dall’Onda, viene assunta da Camillo Jacobini, cui si deve la circolare del 20 febbraio 1850 che, richiamando alla rigida applicazione delle norme contenute nel chirografo di Pio VII del 1802 e nel già citato editto Pacca, rivendica al Ministero la giurisdizione esclusiva su tutto ciò che riguarda la conservazione e la tutela dei monumenti di antichità e belle arti15. Così, tra il 1857 ed il 1858 arrivava una segnalazione al Ministero, circa presunte demolizioni delle antiche mura della città di Cures in località Grotte di Torri. Il possessore del terreno si difese parlando di «visionari e sognatori oltramontani» che vagando per la Sabina in cerca dei resti dell’antica città, avevano voluto identificare nei pochi resti sparsi le vestigia di Cures, immaginando così non più castelli in aria ma addirittura una «città in aria». In realtà, nonostante le reiterate giustificazioni del possessore del terreno, studi successivi dimostrarono la presenza di resti di ville rustiche nel territorio di Cures sabini in località Grotte di Torri. Analogamente, in località Colle dei Frati nel 1858, la segnalazione di ulteriori demolizioni di resti di mura romane sembrano proprio riferirsi alla cisterna ed ai resti di un’altra villa rustica presenti in questa località16.
Non sono però solo gli scavi ed i rinvenimenti archeologici oggetto di tutela, ma troviamo anche segnalazioni relative ad opere medioevali e moderne. Così ad esempio, nel 1835 l’architetto Luigi Maria Valadier, incaricato dal card. Odescalchi di effettuare una perizia per il restauro della chiesa di Santa Maria del Colle in Ponticelli (Scandriglia), avendo ammirato molti affreschi di pregevole fattura versanti in stato di grave degrado ed essendo a conoscenza della volontà di effettuare «una generale ripulita» della chiesa, scriveva al camerlego evidenziando la situazione. Nella lettera si cita l’editto Pacca che proibiva di restaurare o cancellare pitture antiche, ritenute dal Valadier cinquecentesche, e si chiede di far visionare le pitture e prendere provvedimenti.
Nel 1838, a seguito di una supplica anonima in cui si denunciava lo stato di abbandono delle pitture di scuola raffaellesca esistenti presso il convento di S. Domenico a Rieti, il camarlengo scriveva al delegato apostolico incaricandolo di effettuare delle verifiche, ricordando che già dal 1826 si era interessato affinché le pitture fossero adeguatamente conservate e rese fruibili dagli eruditi. Il cav. Ricci, incaricato della verifica, risponde ripercorrendo la storia degli affreschi, rinvenuti nel 1822 dal pittore Andrea Pozzi in un locale del convento affittato dai padri domenicani come granaio. Per ordine del camerlengo card. Pacca, il locale venne sgombrato, mentre sotto il camerlengo Galeffi si procedette alla pulitura degli affreschi ed a piccoli restauri dei locali17. Si tratta in realtà degli splendidi affreschi del giudizio universale, realizzato dai fratelli Lorenzo e Bartolomeo Torresani nell’oratorio di san Pietro martire nella prima metà del XVI secolo, oggi liberamente visitabili, proprio grazie a quegli interventi.
Sempre nel 1838 e sempre a proposito della raffigurazione del giudizio universale, Angelo Maria Ricci segnalava l’esistenza di un ciclo di affreschi medioevali nella chiesa di Montebuono in Sabina, citati dal testo del Guattani, che l’attribuiva sulla scorta di un’epigrafe a «magister Jacobus da Roccha Antica 1204». Anche qui si rende necessaria una verifica della Commissione, poiché la presenza così antica di una raffigurazione dell’inferno, poteva aprire nuovi scenari di studio. Ma il sopralluogo dello scultore Ceccarini e l’invio dei lucidi da lui effettuati, smorzò gli entusiasmi. Nella sua relazione Ceccarini, evidenziando tutti i pregiudizi dell’epoca sull’arte medioevale, parlava di «orrende figurette…», procede dicendo di aver «lucidato il giudizio intero con tutto il disordine e la sproporzione delle sue figurate…». Più avanti a proposito dell’Annunciazione, rimase sorpreso dalla raffigurazione del Padre Eterno in atto di «lanciare nel seno della Madonna un bambino seduto sulla cima delle sue dita», aggiungendo poi che, «intorno a questa curiosa rappresentazione gira un festone di angioletti sciancati veramente da ridere».

Segue la relazione di Angelo Maria Ricci che, visionati i lucidi definisce le pitture espressione «volgare dell’infanzia dell’arte, alla cui storia potrebbe servire il semplice tentativo ed il nome finora oscuro di maestro Jacopo di Roccantica…», lascia poi la decisione sul merito della validità delle pitture ai dotti archeologi del Camerlangato18. Si tratta in realtà di un’opera più tarda, ma estremamente interessante ed unica in Sabina per la completezza della visione dell’aldilà che presenta. La raffigurazione del giudizio segue la tradizione, presentando in successione il Cristo giudice all’interno della mandorla, la resurrezione dei corpi e più in basso le scene raffiguranti l’oltretomba, con la rara raffigurazione del limbo, Adamo ed Eva, il paradiso e infine la colorita raffigurazione dell’inferno, con le anime dei dannati che scontano le pene corrispondenti alle loro colpe secondo la legge del contrappasso.
Nel complesso, dalla documentazione analizzata emerge il fervore degli scavi archeologici di quegli anni, la visione squisitamente antiquaria degli stessi, certo ancora lontani da criteri scientifici, ma comunque appassionata e appassionante. Sembra di rivedere i viaggiatori stranieri del gran tour vagare alla ricerca dei resti di antiche città, il clima di speranza di facili guadagni che potevano capitare anche a semplici contadini quando si imbattevano miracolosamente in un tesoro antico, ma soprattutto lo sforzo del Governo pontificio di tutelare il suo ricco patrimonio e regolamentare un difficile settore, aprendo così la via alla nascita di una nuova consapevolezza del bene culturale come bene di tutti, da custodire e preservare per le future generazioni.
Bibliografia:
1. Andrea Emiliani, Musei e museologia nella storia d’Italia, in Storia d’Italia, V, Documenti, 1973, Torino, p. 1616.
2. Archivio di Stato di Rieti (d’ora in poi ASRi), Fondo Delegazione apostolica, Busta 187.
3. Giuseppe Antonio Guattani, Monumenti sabini, Roma, 1828.
4. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 195.
5. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 190.
6. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 220.
7. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 199.
8. Ibidem.
9. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Buste 206, 210, 212.
10. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Buste 210, 212.
11. Vedi anche Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica per l’anno 1836. N. I-III gennaio febbraio 1836. Roma, 1836, pp. 9-12.
12. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 190.
13. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 199.
14. Vedi anche Bullettino dell’Instituto di corrispondenza archeologica per l’anno 1836. N. I-III gennaio febbraio 1836. Roma, 183, pp. 9-12.
15. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 236.
16. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 264.
17. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 206.
18. ASRi, Fondo Delegazione apostolica, Busta 210.