di Egisto Fiori
Il coronavirus, inconsapevolmente, ci sta mostrando la nostra fragilità umana, quella del sistema socio-economico in cui siamo immersi ma ci rende anche più consapevoli del fatto che il nostro vivere è garantito dal lavoro dei tanti e delle tante che senza eccessivi clamori ma con competenze sviluppatesi sovente nei secoli, affrontano fatiche, timori, incertezze. Esprimono allo stesso tempo, anche le speranze, le gioie e non di rado, prefigurano il sogno di futuri possibili. La canzone alla finestra di oggi è dedicata a loro, ai lavoratori e alle lavoratrici del presente e del passato. Ancora una volta, cercando di cogliere un grumo di universalità, scenderemo nelle singolarità del nostro territorio sondando memorie ed eredità culturali non sempre conosciute ai più.
Ci avviciniamo ai boschi di Rieti tramite antichi sentieri appenninici, seguendo le tracce della transumanza e ricordando che il nostro territorio non è stato solo un punto di partenza per “altrove” ma anche un luogo di passaggio, d’incontro e di arrivo. Il primo racconto che invitiamo a seguire è quello proposto da Riccardo Tesi, cantante e musicista pistoiese. La canzone è stata raccolta da Caterina Bueno a Tirli, in provincia di Grosseto, nel 1965. L’autore del componimento è incerto. Per alcuni ricercatori potrebbe trattarsi del poeta e carbonaro Olinto Venturi (1865-1926) ma altri sono più propensi a ritenere che il canto sia molto più antico, forse risalente al Settecento. Nei mesi invernali, fino agli inizi del secolo scorso, partivano dalla montagna pistoiese i gruppi di carbonari per andare a “cuocere il carbone” nella Maremma toscana, in Sardegna, in Corsica ma anche nel nostro territorio. Restavano per mesi lontani da casa e per una paga da fame, lavoravano in condizioni durissime affrontando oltre alle angherie, le inclemenze della stagione e le febbri malariche.
Nel video che accompagna il testo, un lamento autenticamente commovente, sono riprodotte immagini che riguardano anche le diverse fasi della lavorazione. Si cominciava con l’abbattimento degli alberi e il loro trasporto in luoghi deputati. In seguito, si provvedeva al taglio della legna in formati necessari e all’allestimento delle carbonaie. La “cottura” avveniva lentamente e ininterrottamente per giorni e notti fino al raffreddamento e all’insaccamento. Tutto il processo andava controllato sapientemente, pena la vanificazione di tutto il lavoro svolto precedente. Per ottenere 8 kg di carbone erano necessari circa 40 quintali di legna. Il lamento del carbonaio è presentato in una versione che ricorda molto il “canto a braccio” delle nostre terre, testimonianza di una contaminazione importante tra le montagne toscane e quelle del nostro territorio. Nel testo originale raccolto dalla Bueno, inoltre, il capoluogo sabino viene definito «Riete», secondo gli usi locali, e questo particolare, insieme ad altri, può costituire un ulteriore sostegno all’ipotesi di un rapporto complesso e non solo occasionale tra gli abitanti delle due terre.
L’economia del territorio reatino, è stata fino ai primi tentativi di industrializzazione fondata sul patrimonio boschivo, sull’agricoltura e sulla pastorizia. In questo mondo troviamo strumenti musicali particolari e balli tradizionali. Seppur più raramente, si è venuti a conoscenza di veri e propri canti di lavoro scanditi dal ritmo e dal canto. Una miniera di informazioni è costituita dal lascito di Italia Ranaldi, una delle voci più suggestive e rappresentative della cultura orale della Sabina. Il suo repertorio copre un’area che spazia tra Poggio Moiano (Rieti) e Montelibretti (Roma). A queso proposito, nel 1973, l’etichetta discografica «Albatros» dedicò un intero Lp al suo vasto repertorio, curato da Roberto Leydi e Fulvio Montobbio. Tra i brani pubblicati troviamo stornelli al “modo” delle raccoglitrici d’olive, dei mietitori e dei pastori. Ci stiamo riferendo quindi all’oro verde, al grano e all’altra grande ricchezza del nostro territorio. Come già riportato, le nostre strade di montagna erano transitate in un verso e nell’altro, da pellegrini, viandanti, soldati e commercianti ma ancor più spesso, da chi viveva di lavori e mansioni stagionali. Non è un caso che negli stornelli collegati alla pastorizia presi in esame, si trovi un immediato quanto ironico riferimento alla Maremma.
Cambia il lavoro e con esso il ritmo, i gesti, la respirazione. Cambia di conseguenza anche il “modo” del canto e compare la necessità di compiere azioni collettive all’unisono come quella della mietitura.
Tra le ricchezze prodotte nell’area sabina spicca l’olio considerato per le sue proprietà organolettiche tra i migliori al mondo. Il processo di raccolta è stato nel corso del tempo affidato alle macchine ma in gran parte del territorio, la raccolta avviene ancora manualmente e non di rado ci si affida a frantoi storici. Dal repertorio di Italia Ranaldi, possiamo ascoltare gli Stornelli al modo delle raccoglitrici d’olive. Il testo si riferisce alle sofferenze d’amore ma in questo caso, è ancora una volta il ritmo, con le sue pause, a dirci molto dei gesti necessari alla raccolta, della fatica, delle schiene curve, dei respiri e cosa non scontata, del rispetto maggiore che dovremmo avere per la terra ed il lavoro che ci nutrono e ci curano.
Questo fugace incontro nella tradizione per il momento, termina qui. “Canzoni alla finestra” però non smetterà di cantare e di andare alla ricerca dei tanti e preziosi tesori musicali della nostra terra.