di Patrizia Cacciani
Nella rivista «Il Dramma» del giugno 1969 c’è un brevissimo articolo a firma di Massimo Bogianckino, Sovrintendente del Festival dei Due mondi di Spoleto, dal titolo Spoleto e le sue scelte senza terrorismo in cui afferma: «Credo che il Festival di Spoleto debba restare una sorta di opera aperta, accogliere e suggerire – nel suo tempo breve ma frenetico – quante più idee possibili; rifiutare, quindi, di istituzionalizzarsi ed evitare il pericolo di cadere in abitudini mentali»[1].
Spoleto, come ci racconta il cinegiornale Luce B1003 del 1936 dal titolo i monumenti d’arte – vista da lontano, distesa sulla Valle Umbra dall’alto del Colle Sant’Elia, sino ad una panoramica del centro cittadino dall’alto – è una città d’arte che «…apre il suo sipario e con il suo Festival accoglie il mondo. La sua bellezza monumentale è intatta come la sua storica vocazione all’arte. Le quinte si schiudono ancor prima di accedere alle sue strade, con lo scenario maestoso della Rocca Albornoziana e la magnifica sequenza di arcate del Ponte delle Torri. In poche centinaia di metri convivono un Teatro Romano del primo secolo avanti Cristo, il seicentesco teatro Caio Melisso Spazio, il trecentesco complesso del San Nicolò, l’ottocentesco Teatro Nuovo, in una raffinata armonia cittadina che include chiese longobarde e gotiche, chiostri medievali, auditorium e preziosi palazzi nobiliari e, non ultima, la grande piazza palcoscenico del Duomo, con la Basilica eretta nel dodicesimo secolo»[2], come recita il sito del festival alla pagina Il mondo in scena. Ed ancora dalla stessa pagina: «In questa incomparabile dimensione nacque nel 1958 il Festival dei Due Mondi, grazie al compositore Gian Carlo Menotti che la scelse quale luogo ideale per fondare una manifestazione che celebrasse l’arte in tutte le sue forme. Andarono in scena memorabili spettacoli e il Festival divenne ben presto l’appuntamento per eccellenza con il fermento culturale al di qua e al di là dell’oceano. Giunsero a Spoleto i più grandi protagonisti del cinema e della scena teatrale, celebri danzatori e coreografi, poeti, drammaturghi, scrittori»[3].
Nell’Archivio Storico Luce sono conservati alcuni cinegiornali sul Festival tra il 1966 ed il 1968 della testata RADAR: presentato come “film-giornale d’attualità” è corredato per lo più di notizie dall’Italia – di cronache romane e milanesi in particolare – fatta eccezione per qualche servizio dall’estero relativo ad attualità sportive, a spettacoli, a usi e costumi, e a note curiose. Avvenimenti della cronaca politica e culturale italiana aprono spesso le varie edizioni del notiziario; si alternano, quindi, rubriche di arredamento o moda, lezioni di educazione civico-stradale, interviste a personaggi vari; seguono, poi, “cine-articoli” su convegni, mostre d’arte, premi, rassegne fotografiche, saloni, sfilate, eventi mondani, arrivi e partenze di celebrità, passatempi giovanili e fatti di costume, commentati in modo vivace, spigliato e pieno di humor. In particolare gusti, tendenze e “agitazioni” delle giovani generazioni, materiali e sperimentazioni dell’arte contemporanea, bizzarrie e stravaganze della moda, trovano ironici e spassosi commenti nei servizi Radar della seconda metà degli anni Sessanta. Non mancano numeri unici intitolati ad interessanti “inchieste” o a confronti tra la Roma di ieri e quella di oggi. Le edizioni degli anni Settanta e Ottanta proseguono con varianti e aggiornamenti sulla falsariga di quelle degli anni Sessanta. Si incontrano diversi servizi dall’URSS e, in chiusura, è riservato maggiore spazio a cinema e teatro. La serie completa di cinegiornali dell’Italia repubblicana prodotta dalla Radar Cinematografica, e acquisita dall’Istituto Luce, uscì, con il primo numero, il 29 ottobre 1965 al cinema Jolly di Bologna e fu edita settimanalmente fino al 1982. La regia fu affidata a Ugo Mantici e la direzione fotografica a Franco Vitrotti. Uno sguardo originale, divertente e ironico, pieno di interessanti e approfondite “occhiate”, viene gettato, nelle varie edizioni di questo film-giornale, su avvenimenti dell’attualità politica e culturale nazionale, ma, soprattutto, su fatti di moda, costume, arte e società dell’Italia degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Il 4 luglio 1969, nell’ex Chiesa di San Nicolò, andò in scena l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, con la riduzione dei testi di Edoardo Sanguineti e la regia di Luca Ronconi.
Locandina: www.lucaronconi.it
Nel sito dedicato a Luca Ronconi si legge uno stralcio dell’articolo di Franco Quadri sullo spettacolo: «Ronconi crea con l’Orlando furioso una delle messinscene più movimentate dell’intera storia del teatro. Il poema epico-cavalleresco di Ludovico Ariosto, condensato dal poeta Edoardo Sanguineti intorno ad alcuni personaggi e nuclei narrativi, si trasforma in uno spettacolo-festa che invade chiese e piazze e diventa uno dei simboli della rivoluzione teatrale di quegli anni. L’Orlando furioso, che debutta nell’estate del 1969 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, aggredisce e sorprende il pubblico da due palcoscenici scomponibili e mobili posti alle due estremità dello spazio scenico, ma anche irrompendo con carrelli di legno spinti dagli attori nella zona centrale occupata dagli spettatori, che vengono dunque utilizzati come una sorta di “scenografia vivente” e costretti ad assecondare l’azione, che spesso si sviluppa simultaneamente in più luoghi. Lo spettatore, spiega Ronconi, fondamentalmente si trova […] davanti a due scelte: o partecipa al gioco che gli proponiamo, o si mette in disparte e sta a guardare. E in questo caso si annoierà, perché, ripeto, lo spettacolo va vissuto, non certo visto e giudicato. Se, al contrario, lo spettatore entra nel gioco potrà, immediatamente, essere parte viva, attiva di esso»[4].
L’idea è quella di trovarsi all’interno di una festa medioevale. Ancora Quadri, sulla rivista «Il Patalogo»: «Ognuno è libero di spingere il suo eroe vagante verso l’ignoto, di assistere a un duello o a una scena di follia, o di scegliersi via via una strada, come il lettore quando sfoglia un libro: si formerà quindi un itinerario personale e un proprio montaggio della serata, ritrovandovi comunque l’ironia e le contaminazioni dell’Ariosto. E vive la dimensione fantastica, grazie alle macchine in legno di Uberto Bertacca costruite con estrema semplicità, eppure in grado di impressionare quando ricreano castelli o assedi o la lotta con l’Orca di Orlando, che è il possente Massimo Foschi; o l’ascesa alla luna a cavallo dell’ippogrifo che si erge sulla folla, prima che tutti si ritrovino chiusi in un labirinto tra i paladini appostati a raccontare imprese surreali. Il senso del meraviglioso nasce proprio dalla linearità di mitici giocattoli a portata di mano che inducono alla regressione infantile, mentre il rischio delle macchine che incombono suscita un’emozione coinvolgente».
Foto dello spettacolo: Archivio Fondazione Festival dei 2 Mondi www.lucaronconi.it
Il Karnhoval fu un esperimento di arte collettiva. Il Festival dei Due mondi è un momento di incontro tra arti diverse. Uno è stato un evento estemporaneo, talmente spontaneo da essere realizzato una sola volta, l’altro è ufficiale ed è arrivato alla sua 62° edizione. I luoghi cittadini sono parte integrante della rappresentazione. Ma le genti che le abitano non sono altro che degli spettatori passivi nonostante in entrambi gli artisti che vi hanno partecipato, in quel lontano 1969, ritenessero il coinvolgimento del pubblico fosse una peculiarità indispensabile per la realizzazione del progetto artistico.
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[1] M. Bogianckino, Spoleto e le sue scelte senza terrorismo, in «Il Dramma», n. 6, giugno 1969, p. 29.
[2] http://www.festivaldispoleto.com/2018/chisiamo.asp
[3] Ibidem.
[4] F. Quadri, Il rito perduto, Torino, Einaudi, 1973, p. 91. www.lucaronconi.it