di Andrea Scappa_
Per il secondo incontro di questo nostro tempo di formazione abbiamo scelto di avere con noi Manfredi Scanagatta, docente di Diffusione sociale della storia e nuove tecnologie, al Master di II livello in Public History dell’Università di Modena e Reggio Emilia, e Alessandro Serri, da poco diplomato allo stesso master. Scanagatta ci introduce alla Public History e a quello che è il ruolo del Public Historian. Serri ci racconta il suo progetto relativo a una storia di famiglia.
La Public History ha origine nel contesto anglosassone, tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ci vorrà del tempo prima che riesca a mettere radici in Italia. Punto di non ritorno sarà una sorta di triangolazione, che vede l’intensa attività di Serge Noiret, primo presidente della Federazione internazionale per la Public History, e dell’Istituto Universitario Europeo di Fiesole a lui correlato, la creazione del primo Master dedicato alla Public History e la prima Conferenza italiana e internazionale di Public History a Ravenna, con la nascita, nel suo alveo, dell’Associazione Italiana di Public History. Siamo intorno alla metà degli anni dieci dell’attuale secolo. Da quel momento abbiamo avuto altre edizioni della Conferenza in varie parti dell’Italia e si è consolidato il Master, che sta per iniziare i corsi della sesta edizione, aggiungendo la parola Digital a Public History. Non è un caso. Infatti il master, in questo anno accademico, tenuto conto del ripensamento della tecnologia e del suo uso nell’epoca pandemica, darà molto spazio a come il digitale invade, plasma, facilita i processi di ricerca dello storico, di co-creazione della cultura e di irraggiamento delle informazioni storiche. Accanto a tale focus, si rivolgerà un particolare sguardo al tema degli audiovisivi negli archivi di famiglia e alla pratica del found footage.
Scanagatta chiarisce subito che, per provare a formulare una definizione di Public History, è opportuno collocarsi tra chi la inquadra come disciplina e chi la considera in termini di metodo. Una dicotomia questa, che nel nostro Paese anima il dibattito sulla Public History tra l’accademia e la divulgazione, tra Istituzioni e reti di lavoro dal basso, tra gli storici e gli altri professionisti che lavorano con la storia. Una bipolarità che, al tempo stesso, restituisce un paesaggio articolato della Public History in Italia, che è in mutamento e costruzione, che presenta molti rivoli a cui abbeverarsi. Scanagatta, tenendo insieme le sue due anime, la intende come «un metodo sovrastrutturale, che si basa sul metodo di indagine storico, ma che prova a proporre altre possibilità, quindi, mantenendo un aggancio importante all’analisi anche accademica che si fa della storia, importante, non solo contemporanea, ma su questo provare a proporre delle nuove pratiche di ricerca e di diffusione, andando a utilizzare tutti i dispositivi ad oggi a disposizione, quindi con uno sguardo molto attento anche a quello che il web è come strumento sì di ricerca, ma anche di diffusione del contenuto storico».
In ogni caso, la Public History va intesa come un processo che elude le gerarchie documentali e usa tutti i tipi di fonti storiche, che riconosce e include il punto di vista dei vinti, degli emarginati, degli inascoltati, che adotta modalità partecipate e inusuali di costruzione della storia, che pone in maniera paritetica, anzi complementare, Storia e storie, che consente di conoscere e comprendere la complessità della storia in maniera semplice, di sviluppare il pensiero critico e di riattivare il ruolo del cittadino nella società. Pertanto il public historian è un essere anfibio tra le diverse discipline, tra il metodo storico e le forme di trasmissione, svolge un ruolo di mediatore sui territori, dopo averli attraversati nel profondo ed aver instaurato un patto sincero di scambio e collaborazione con i suoi abitanti. Il public historian è una specie di cercatore d’oro e di acchiappafantasmi perché deve confrontarsi con un patrimonio storico (foto, video, documenti cartacei, memoria orale, ecc.) che esiste, ma non si vede o meglio non vedono coloro che lo possiedono e che non hanno trovato ancora lo spazio, gli strumenti, gli interlocutori più adatti per metterlo in condivisione. Un aspetto fondamentale, che deve tenere sempre a mente chi fa Public History, risulta pertanto la pratica con cui si ricercano e organizzano dal punto di vista critico, creativo e comunicativo le fonti, affinché la loro restituzione sia coerente e funzionale al pubblico di riferimento. Nello specifico per l’individuazione e la selezione delle fonti, utili a tessere la narrazione, si rivela determinante il confronto tra i public historians impegnati nella stessa indagine.
Così coloro che frequentano il Master di Modena e Reggio Emilia hanno la possibilità di confrontarsi con insegnamenti molto diversi. Si osserva la storia attraverso il cinema, il teatro e la musica, si approfondiscono gli aspetti didattici e inerenti l’utilizzo degli archivi digitali, si sperimentano le forme di restituzione della storia, dalla mostra a un sito, dai podcast alla performance, fino alle pubblicazioni digitali. Ha fatto questo percorso di studi anche Alessandro Serri, che ha presentato, come elaborato finale, un progetto di Public History su una famiglia della provincia di Reggio Emilia, i Tirelli-Prampolini. Una famiglia che, tra gli anni Trenta e Quaranta, ha visto alcuni dei suoi componenti ricoprire ruoli a livello nazionale o avere rapporti di primo piano con il regime fascista. Dopo aver raccolto una serie di materiali relativi alla storia di questa famiglia, i filmini privati all’Archivio Home Movies di Bologna, le foto alla Biblioteca “Panizzi” di Reggio Emilia, la testimonianza di uno degli eredi, gli articoli di giornale, i filmati ufficiali dell’Istituto Luce, gli scritti di intellettuali e storici, Serri li ha organizzati in un prodotto multimediale con il software Klynt. Klynt consente infatti al fruitore del prodotto di costruirsi la propria narrazione, scegliendo di guardare solo alcuni capitoli oppure tutti nella loro consequenzialità, di approfondire alcuni elementi attraverso precise parole chiave. Così ci troviamo di fronte ad alcuni capitoli tematici. Uno riguarda la società e il costume di Reggio Emilia tra il terzo e il quarto decennio del secolo scorso. Un altro è dedicato a Luigi Tirelli, visto accanto alle autorità fasciste, mentre è circondato dai suoi amati animali all’interno sua tenuta, e nella cantina che aveva aperto in un paese della Bassa Reggiana, una delle prime cantine della regione in grado di produrre 3000 ettolitri di vino al giorno. Un altro capitolo ancora relativo alla figura di Natale Prampolini, presidente dell’Ente di bonifica dell’Agro pontino e di enti di bonifica della regione Emilia Romagna, che lo mostra, soprattutto attraverso filmati, impegnato in attività istituzionali. Il prodotto, non ancora riversato su un sito, attende di essere reso fruibile e di parlarci. Sì, perché la storia ci parla di continuo. Dobbiamo imparare ad ascoltarla e a farcene portavoce.